Non c’entra il complottismo, è capacità di resettare, di fare autoanalisi. Usa il pit-stop come arma tattica. Ci provano in tanti, ma solo lui così vince il Roland Garros
Toilet break, sarebbe la pausa-cesso. Djokovic ha vinto il Roland Garros al bagno. Come precedentemente aveva fatto, prendendolo per i fondelli, contro il giovane Musetti, lasciato in campo a rimuginare tra sé e sé su quei due set di vantaggio sul numero uno del mondo, nel torneo in terra rossa più importante del circuito. Un mezzuccio spicciolo, di quelli in uso anche nel Tpra più scalcagnato: dar da pensare all’avversario vale più di un ace, a volte. Essendo il tennis – a tutti i livelli – lo sport mentale della solitudine, della psicopatia e del genio, della furbizia e dello sconforto (spesso tutto assieme mescolato, è un casino il tennis) se sei Novak Djokovic hai un vantaggio sul resto del mondo. Perché dei tre alieni, lui è il più affilato e il meno appariscente. E’ il tennista mentalista, capace di scartare, di deviare, di origliare i pensieri del nemico, di affettarne le debolezze. E’ un mutaforma, Djokovic: un giocatore atleticamente e tecnicamente creato per adattarsi alla battaglia.
E così, sotto di due set con Tsitsipas, ha preso il borsone e s’è avviato negli spogliatoi. Con l’espressione d’uno che col rotolo di carta igienica sotto al braccio s’avvia a fare l’ineluttabile. Quando è tornato – non lo sapeva ancora nessuno, ma lui sì, glielo si leggeva sotto al cappellino – aveva già vinto. Gli mancavano solo altre 2 o 3 ore per rosolare il povero greco. Un clic. Descritto perfettamente da Mats Wilander su L’Equipe:
«Esattamente la stessa cosa che è successa contro Lorenzo Musetti agli ottavi di finale: quando è tornato dalla sua “pausa bagno” Djokovic ha cambiato completamente il suo modo di giocare. Ha cambiato strategia, ha iniziato a correre più rischi. Come? Decidendo di accorciare gli scambi. Siamo passati da una media di sei colpi nel primo set a una media di quattro colpi nel terzo e quarto. Non è stato Tsitsipas a guidare questo cambiamento, è stato Djokovic. Dopo due ore, aveva chiaramente analizzato la situazione. Quindi ha proposto un altro gioco a Tsitsipas, dicendogli: “E ora, che fai?”. E Tsitsipas non ha potuto fare nulla. Tirare fuori una tale oscillazione sulla terra rossa è incredibile. In effetti, quello che mi stupisce di più è che è riuscito a farlo per tre set di fila, senza mai abbassare la guardia».
Scritto da Wilander fa un po’ impressione:
«Lo trovo uno sforzo sovrumano, tatticamente e mentalmente. Devi avere il coraggio di dire a te stesso: “Non importa se perdo, devo assolutamente cambiare il mio approccio al gioco”».
Al netto dei complottisti alla deriva (che ululano al doping di Nadal da due decenni, per dire), in quei minuti si consuma un reset implacabile. Quel tempo che altri passerebbero a svolgere le funzioni fisiologiche Djokovic lo consuma in autoanalisi, riappacificazione, riformulazione tattica.
E non è certo una novità. In questa lunghissima volata verso la leggenda che Federer, Nadal e Djokovic si stanno tirando vicendevolmente a scapito dei vari next-gen (che in un lampo si ritrovano old-gen senza capire cosa diavolo sia successo nel frattempo), il serbo ha sublimato il suo ruolo di terzo incomodo. Ha goduto d’una sfida quasi filosofica tra gli altri due – lo spagnolo dio dell’agonismo, e lo svizzero per molti dio e basta – procurandosi uno spazio nel mezzo. Vincendo, dominando, senza mai far innamorare nessuno. Prendendosi lo sfizio, tra l’altro, di rovinare la gloria dei rivali: la finale di Wimbledon 2019, strappata a Federer annullando due storici match point nel quinto set; e la semifinale di questo Roland Garros, con Nadal smontato in un modo quasi inedito (molti l’hanno letta come il canto del cigno di Rafa, non ci giureremmo…). Una strage di lieto fine. Lui, nel frattempo, è l’unico giocatore dell’era open ad aver vinto almeno due volte gli Slam su tutte e quattro le superfici.
Wilander dice anche che “se c’è un giocatore oggi che può completare il Grande Slam (la vittoria di tutti e quattro gli Slam nella stessa stagione, ndr) è lui. Perché è l’unico che ha dominato le quattro superfici. L’unico vero ostacolo era Nadal a Parigi. Una volta passato, è come se Djokovic avesse fatto la parte difficile”.
Se questo è lo stato dell’arte, il time-out travestito non è un dettaglio. E’ un ulteriore elemento che racconta la superiorità attuale di Djokovic. Capace di infilarsi nelle pieghe del regolamento per coglierne i vantaggi. Lo fanno quasi tutti, ma lui è l’unico a riuscirci con questa incisività, ai livelli più alti.
L’aneddotica della pausa-cesso è infinita. Per dirne una: negli anni 50, nei grandi tornei internazionali dopo il terzo set i giocatori avevano diritto a 20 minuti di riposo. A Wimbledon però era tradizione evitare: il riposo ad interruzione della singolar tenzone era ritenuto inelegante. Fino a quando arrivò Gianni Clerici – “quel” Gianni Clerici – nel 1953. Sotto di due set a uno (non c’era il tiebreak all’epoca, i set finivano 8-6, tipo) contro Laslo, invocò l’applicazione del regolamento. Ottenne i suoi 20 minuti di riposo e la riprovazione degli organizzatori, sdegnati. Poi perse, ma conta poco.
Nel 2021 Djokovic ha elevato una pratica inerte, fanciullesca – “maestra posso andare al bagno?” – ad elemento stesso di gioco. Il pit-stop col doppio vantaggio: ricalibrare la propria tattica e mandare ai matti gli equilibri dell’avversario. Insinuandosi nel destino di partite ormai avviate, avvitando il flusso del gioco, per chiudere come e quando decide lui. Ne escono tutti malconci, stralunati, avviliti: l’avversario incapace di trovare un punto d’impatto, una soluzione, e il pubblico che osserva quel nuovo match cominciato dal nulla, che non ammette altro finale che non sia quello scelto al bagno, poco prima.
Djokovic è diventato inevitabile.