La fine sempre più vicina di un’era di grandi arbitri, la confusione intorno al VAR, il silenzio dell’Aia: un tunnel di cui ancora non si vede l’uscita
Il mese di maggio ha evidenziato una moltitudine di falle in un sistema, quello arbitrale, che sta cercando di trasformarsi. Ma lo fa senza coerenza, provando a intraprendere percorsi nuovi senza convinzione, dando sempre l’impressione di non aver chiare le strategie funzionali per il raggiungimento di un obiettivo. E soprattutto ciò accade in un momento di profonda crisi tecnica.
È quest’ultimo probabilmente l’aspetto più grave. La classe arbitrale italiana, per quanto sia ben lontana da essere tra le peggiori, è nel pieno di un livellamento verso il basso della qualità dei direttori di gara. Questo è avvenuto per vari motivi. Il primo è stato l’incapacità di formare nuovi talenti, anche dovuto alla scelta di scindere nel 2010 la Can in A e B, ostacolando di conseguenza il rinnovamento dell’organico e la crescita di tanti direttori di gara, impantanati per circostanze avverse. Succede così che con le carriere già concluse di Rizzoli e Rocchi e quelle che in pochi anni si concluderanno come nel caso di Orsato, l’Italia non avrà più un arbitro di spessore internazionale nella élite Uefa, né una figura a cui affidare sistematicamente le gare più impegnative. Sta per finire l’era di Federer, Nadal e Djokovic e nel tennis, come tra gli arbitri, non sembra esserci nessuno degno di raccoglierne l’eredità al momento.
Il secondo è senz’altro la poca chiarezza del protocollo VAR, che è deficitario di casistiche pratiche, si basa su concetti astratti e di faticosa definizione (“chiaro ed evidente errore”, per dirne uno) e che soprattutto si presta troppo facilmente ad un indirizzo politico. C’è chi, come la Uefa, ha sempre cercato di limitarne il ricorso e si era anche opposta inizialmente a questo strumento. D’altro canto le singole federazioni si sono sentite di dare le proprie direttive. Rizzoli, per cercare di spegnere gli incendi polemici scoppiati di recente, ha suggerito di procedere maggiormente alle review. Ma non poteva sapere che la pezza si sarebbe rivelata ben peggiore del buco.
Lo scorso weekend, per intenderci, il VAR si è trasformato nella moviola in campo. Le linee guida dell’Ifab si sono dissolte nella paura di commettere errori grossolani nelle gare più delicate della stagione. Si è creato così un conflitto in cui nessuno ha torto o ragione, situazione in cui la cultura del sospetto dilaga. Difficile schierarsi, peraltro, tra ciò che è legale e ciò che è legittimo: da un lato chi sostiene l’applicazione del protocollo VAR, che tollera l’omissione di soccorso di chi è in video se l’intervento non è codificato; dall’altro chi invece auspica la correzione, in qualsiasi circostanza essa arrivi, per tutelare la regolarità della contesa.
È chiaro che, in un simile contesto, una maggiore trasparenza si rivela necessaria. Lo sa benissimo il presidente dell’Aia, Alfredo Trentalange, che ha basato anche sull’apertura comunicativa degli arbitri la sua campagna elettorale. Il problema è che a parte le comparse televisive di Orsato, Irrati e Aureliano non s’è visto molto altro. Di certo è un passo in avanti, ha dato l’opportunità di fare domande sedimentate da anni, tenendo però sempre da parte l’attualità. L’intenzione è quella di evitare confronti a caldo con gli arbitri, posizione più che condivisibile considerando la pessima cultura sportiva sul tema. Basterebbe anche qualcosa in stile Nba, con la Lega che nei casi più eclatanti certifica gli sbagli della squadra arbitrale, con le relative spiegazioni. La polemica non sparirà ma i toni potrebbero decisamente smorzarsi, con la conseguenza nemmeno troppo trasversale che gli errori possano diventare momenti didattici e non soltanto pulpiti da cui sfogare le proprie frustrazioni o dita dietro cui nascondere risultati scadenti.
Ma il problema relativo alla comunicazione non si esaurisce soltanto agli aspetti tecnici. Se un arbitro viene sospeso, lo si apprende dai media: questo ne certifica l’ottimo lavoro come operatori dell’informazione ma al tempo stesso rende più visibile la coltre tenuta intorno al sistema. Inoltre, in tempo di pandemia, ci sono arbitri che non si sono visti per un bel po’ (e che non si vedono tuttora) perché probabilmente sono arrivati a contatto direttamente o indirettamente col Covid. Al mondo non è dato saperlo, così il complottista ne approfitta per cercare il precedente strumentale alla tesi dell’Aia che punisce chi prova a cambiare il sistema dall’interno.
Cosa che peraltro è successa, nelle serie minori dove magari la visibilità di certe azioni lo ha permesso per anni, finché qualcuno non ha scelto di denunciare. Se scendessimo alla base della piramide, non la finiremmo più e le criticità assumerebbero caratteri sempre più grotteschi. Come ad esempio la dotazione di una sola divisa a maniche corte ai livelli inferiori: freddo, usura, designazioni ravvicinate, strappi e il resto degli imprevisti, per un compenso micragnoso, stridono davanti a quello che percepisce un arbitro di Serie A.
Le responsabilità non sono assolutamente di Trentalange, che si è insediato soltanto tre mesi fa e che ha ereditato le redini di un’organizzazione già al collasso. Ma il suo compito deve essere quello di cominciare a risolvere, con razionalità e determinazione, tutte queste problematiche. Si è fatto portatore di una rivoluzione che adesso deve attuare, possibilmente senza cedere al magnetismo della poltrona.