Intervista doppia di The Athletic ai due più grandi agenti del calcio mondiale. Un’amichevole tra i loro calciatori sarebbe il match più affascinante del mondo

Jonathan Barnett, Mino Raiola. Non sono persone. Sono una parte un po’ nascosta, ma dannatamente potente, del calcio. Sono gli “agenti”, che è un concetto molto più vasto di quel che crediamo, l’intermediario che cerca di spillare soldi ai presidenti. Si considerano – evidentemente a ragione – al pari della FIFA, governano il pallone mondiale tanto da volerlo rivoluzionare. Perché di fatto gestiscono interamente il capitale umano: i giocatori. Barnett da solo, con la sua agenzia ICM/Stellar ha sotto contratto giocatori per circa 1,4 miliardi di dollari, da Bale, a Grealish, da Camavinga, a Konate, da Mount a Pope a Dest. E poi c’è Mino Raiola da Angri. Il Don King bianco. L’uomo che si prende cura di Ibrahimovic, Haaland, Pogba, de Ligt, Donnarumma, Gravenberch, Balotelli eccetera eccetera.
The Athletic li ha intervistati in tandem, per più di un’ora, su Zoom. E virgolette a parte, il ritratto di categoria che viene fuori dalla chiacchierata è proprio quello di un potere non più occulto che s’è scocciato di essere considerato tale. L’agente accattone, che ha distrutto il romanticismo scegliendo la via dell’avidità, non gli sta più bene.
La provocazione che rende bene il livello di potere in gioco la buttano lì tra il serio e il faceto: se organizzassero una partita tra i loro migliori assistiti, come se fossero delle nazionali, Barnett e Raiola metterebbero in campo un evento strepitoso. Da far impallidire la FIFA. Che è poi il loro obiettivo finale, un attimo prima di distruggerla.
“Penso che se mettessimo in campo il miglior undici delle agenzie, chi vincerebbe sarebbe il pubblico: vedrebbe una partita fantastica”, dice Raiola. “Un evento pay-per-view che attirerebbe più persone rispetto al campionato del mondo di boxe. Ma non dobbiamo farlo sotto la bandiera della FIFA. Altrimenti, dovremmo pagare così tante tasse alla FIFA che non potremmo più permetterci l’evento “.
La FIFA, che Raiola ha più volte detto, nei suoi termini, che deve essere sciolta e sostituita con “una piattaforma moderna”. Barnett è ovviamente d’accordo:
“Quello che la FIFA non capisce bene è che non siamo ragazzini. Non siamo bambini. Non gestiamo piccole imprese. Siamo uguali a loro in ogni forma”
Raiola è più duro: “Secondo me la FIFA non dovrebbe esistere. Il mio sogno, e spero di vivere per vederlo, è vedere un nuovo sistema calcistico, un sistema e un’industria più onesti. È l’istituzione commerciale a cui abbiamo dato tutto il potere, senza alcun motivo. Non abbiamo bisogno di un’organizzazione che non sappia cosa sta succedendo nel calcio moderno”.
Scandali a parte, che i due agenti usano ovviamente come leva del discorso, è il concetto che sottende la potenza della Fifa che gli preme spodestare. Dice Barnett:
“La FIFA è troppo lontana dal gioco, oggi. La FIFA ora si trova in una torre d’avorio in Svizzera. Non hanno idea di cosa fanno i giocatori, cosa fanno gli agenti, cosa fanno i club. Vengono fuori con regole che si adattano a loro ma non sanno cosa fa un giocatore. Non conoscono nessun giocatore!“
La FIFA tra l’altro ha intrapreso una guerra contro la lobby dei procuratori: vuole cambiare le regole, mettere restrizioni, licenze e paletti. Figurarsi se uno come Raiola la manda a dire:
“Non posso accettare che un’organizzazione che ha persone in carcere voglia regolare la mia vita e i miei affari. Non lo accetterò. Non accetterò che siano il mio capo. Non accetterò che vogliano regolare le cose in un modo che non sia logico, non onesto e contrario ai miei principi”.
Se a Barnett e Raiola aggiungi Jorge Mendes, col suo impero Gestifute che comprende Cristiano Ronaldo e Jose Mourinho, allora, capisci di cosa parliamo: un cartello che ha in mano tutte le carte per governarlo.
Raiola dice che non sono cattivi. E’ che li dipingono così: “Questa immagine che siamo persone cattive, non è vera. Quando cammino per le strade d’Italia, in Olanda e in Francia, ho il rispetto di tutte le persone. Sento che c’è molto più rispetto e apprezzamento per quello che faccio, fuori dall’Inghilterra“.
E anche Barnett se la prende con la stampa inglese, e sul populismo della povertà che alimenta:
“Il problema è che la stampa in Gran Bretagna è la peggiore. Non si tratta solo di agenti. Chiunque guadagni soldi in Gran Bretagna viene attaccato. È “sbagliato” fare soldi in Gran Bretagna. Non sto negando di aver guadagnato molti soldi. Mino non negherà di aver fatto molti soldi. Ma ce l’abbiamo fatta perché abbiamo fatto bene per i nostri clienti. Se avessimo guadagnato soldi ferendo un giocatore, dovremmo essere crocifissi. Ma non lo abbiamo fatto, quindi nessuno dovrebbe invidiarci i soldi”.
E rilanciano: loro sono gli eroi di uno sport a parte, il calciomercato. “Che è stato creato dai grandi agenti. Senza quello, c’è solo il calcio sabato e domenica. Di cosa diavolo scrivete dal lunedì al venerdì, ragazzi?! È diventato una parte dell’industria dell’intrattenimento che oggi è molto più grande del solo gioco“.
Poi l’intervista entra nel vivo, nella sostanza nascosta del lavoro dell’agente. Che è poi l’aspetto più affascinante. Barnett dice che il suo lavoro non è “fare amicizia con il presidente, i dirigenti o l’allenatore. Il mio compito è sapere cosa vuole il mio giocatore.
Il lavoro dell’agente, come lo fa Raiola, a volte sostituisce quello dell’allenatore, quasi:
“La mia azienda, ad esempio, ha due analisti che sono considerati tra i migliori al mondo e hanno lavorato per alcune delle più grandi squadre di calcio del mondo. Li abbiamo portati via a quei club per lavorare per noi. Poi ci sediamo con qualcuno, come Luke Shaw, e analizziamo il suo gioco per lui, come farebbe un club. Questa è una cosa personale che facciamo per i nostri giocatori. Gli mostriamo cosa sta facendo di sbagliato o cosa sta facendo bene”.
E’ un rapporto che s’allunga anche a fine carriera. Si pongono quasi come una garanzia di welfare:
“Oltre il 75% dei giocatori falliscono, nella loro carriera. Noi ci prendiamo cura dei nostri giocatori. La percentuale è molto bassa chi chiude senza soldi. Penso al 1966, quando abbiamo vinto la Coppa del Mondo. Di quegli 11 giocatori, credo che otto o nove di loro abbiano dovuto vendere le loro medaglie, le loro coppe, o devono ancora lavorare per vivere. Sono senza un soldo. Nessun club li ha aiutati. La FIFA non li ha aiutati. Nessuno ha aiutato queste superstar. Una cosa vi dirò oggi: se l’Inghilterra vincerà il Mondiale, nessuno di questi ragazzi dovrà vendere le proprie medaglie. Noi, in fin dei conti, siamo le uniche persone che li proteggono”.
Raiola dice che poi l’esperienza ora lo aiuta a non fare passi falsi:
“Ho il vantaggio di 25 anni di attività a questo livello. Ho cambiato il gioco, dal punto di vista economico, più di una volta. Non mi entusiasmo più per questo genere di cose. So aspettare. A volte il miglior interesse del giocatore è non muoversi quando tutti dicono che deve muoversi. E a volte è nel migliore interesse del giocatore muoversi quando tutti dicono che deve restare”.
Barnett è d’accordo:
“C’è il momento giusto per un trasferimento. E c’è un momento sbagliato. E quando sei un giovane agente, non sempre te ne accorgi”.
I due fanno esempi disgiunti. Barnett racconta che una volta avrebbe dovuto far maturare di più un giocatore prima del salto in una grande squadra e quella mossa gli ha rovinato la carriera. Raiola eccepisce: “A me è successo che arrivò una grande squadra e con il padre del giocatore decidemmo di aspettare e di restare un altro anno dov’era. Poi il ragazzo ha avuto due infortuni ai legamenti e non ha più avuto una carriera. Quindi questo è il fottuto problema delle nostre vite, sai? A volte il calcio è un treno che passa e puoi dire: “Prendiamo il prossimo treno”. Ma a volte il prossimo treno non arriva”
La chiusura è su Ibrahimovic che per Raiola e per il mondo dei procuratori è per forza di cose un mito assoluto. Per la quantità e la qualità dei trasferimenti (con relative commissioni) e per la durata della carriera. Raiola sorride:
“Zlatan è più forte di quanto non sappia. Ma io solo lì per proteggerlo, per dirgli: ascolta, ti stai prendendo in giro, smettila. Questo deve essere il mio lavoro, guardarlo e dire: non farlo. Smetti. Ma Zlatan ha bisogno di giocare altri tre o quattro anni per se stesso. E poi altri otto anni in cui tutti i ricavi andranno solo a me. Quindi almeno fino ai 50 anni”.