ilNapolista

Il Telegraph: «Che belli i calciatori degli anni 70, peccatori ed edonisti. Oggi sono angeli noiosi»

“Quando abbiamo deciso che devono essere un modello di comportamento? Siamo passati dal glamour al perbenismo agonistico”

Il Telegraph: «Che belli i calciatori degli anni 70, peccatori ed edonisti. Oggi sono angeli noiosi»

Occupati come siamo a puntare il dito, e ad urlare “vergogna!” ad ogni calciatore pescato a farsi uno shottino di troppo, con più di una modella alla volta, non ci chiediamo mai una cosa che di punto in bianco si chiede Simon Briggs, sul Telegraph: quando abbiamo deciso che i calciatori devono vivere come noiosissimi angeli? E soprattutto: perché?

Briggs è il giornalista del Telegraph che solitamente segue il tennis. Ma è anche un cultore degli anni 70. E a quegli anni si riferisce, quando paragona lo scarto di epoche, dal glamour al perbenismo agonistico.

L’era dei cosiddetti “Maverick” – per usare il termine collettivo imposto a Worthington, Bowles, Marsh e altri “miti” del calcio anglosassone – è finita, scrive Briggs. Quelli “erano tutti animali da festa, che seguivano l’esempio del loro peccatore patrono, George Best”.

«Negli anni ’70, uno sportivo non doveva fingere di essere un angelo. Poteva divertirsi con la ritrovata celebrità fornita dalla TV a colori. Poteva vivere dei profitti che provenivano dalla fine del salario minimo del calcio. Poteva godere dei frutti della rivoluzione sessuale (poiché, come ha sottolineato Philip Larkin, i rapporti sessuali sono iniziati nel 1963). Ma anche se godeva di tutti questi abbondanti benefici, la sua libertà non era limitata. Il panico morale sul calcio tendeva a riguardare i tifosi – erano i primi tempi del teppismo da stadio – mentre i giocatori si godevano l’edonismo da nightclub e le gite a Maiorca, in santa pace. Era troppo bello per durare. Nel 21° secolo, i calciatori vivono in una gabbia dorata. E sulle sbarre c’è incisa una frase terribile: “modello di comportamento”».

Quella di Briggs è un’autocritica, una confessione di categoria:

«Noi dei media siamo in gran parte responsabili. L’insistenza sul fatto che le star dello sport debbano essere cittadini che vivono in modo pulito si è sviluppata nel anni ’80 e ’90, insieme all’ascesa di una cultura del giornalismo “gotcha”. La teoria che rende lo scoop strano e pruriginoso. Ma è logico? Non particolarmente. Nessuno ha mai inseguito Alice Cooper o David Bowie per lamentarsi delle loro abitudini, o dell’abuso di cocaina. Nessuno accusava attori alcolisti come Oliver Reed o Richard Harris di dare il cattivo esempio. Ma Paul Gascoigne che sorseggia shot di tequila sulla poltrona di un dentista di Hong Kong? Moralmente riprovevole e un tradimento dei valori sportivi”.

C’è un momento spartiacque, scrive Briggs: la prima pagina del The Sun del 30 maggio 1996. La foto di un Gascoigne tagliato a metà sotto il titolo “Disgracefool” e il sottotitolo “Guardate Gazza – un ubriacone senza orgoglio”. Non importava che quella fosse una grande serata alla fine del tour nell’estremo oriente dell’Inghilterra. E che Darren Anderton avrebbe poi affermato che la gara di bevute “aveva creato un ambiente da club in una squadra che ne aveva bisogno”.

«Ci sono diverse possibili spiegazioni per questo doppio standard. Le origini dello sport come forza morale nelle scuole pubbliche vittoriane? Il risentimento per gli atleti ricchi, per i loro privilegi e la loro giovinezza? Ci sentiamo in diritto di giudicare chiunque giochi per la bandiera nazionale, in base al fatto che – come i politici – ci rappresentano? Qualunque sia la risposta, uno sportivo è un intrattenitore tanto quanto Katy Perry o Robert Downey Jnr. E il controllo del comportamento fuori campo ha prodotto una conseguenza ironica: lo sport moderno è molto meno divertente di quanto potrebbe essere».

«Sono certo che l’impressione monocromatica sia illusoria. E che ci sono un sacco di vicende picaresche nascoste sotto la superficie. I giovani uomini ricchi e alimentati dal testosterone troveranno il modo di divertirsi. Ma tutti sanno che devono nascondersi».

Manca la gioia, insomma. Per loro, ma soprattutto per noi. Ed “è colpa della nostra ossessione per i modelli di comportamento”.

ilnapolista © riproduzione riservata