ilNapolista

«Quando è entrato a San Patrignano, mio figlio era un coglioncello perso. Dopo un anno sorrideva»

Sul Fatto la lettera di un papà: «La serie di Netflix fa finta di non avere priorità. Resta intatta l’infinita gratitudine di noi genitori per Muccioli» 

«Quando è entrato a San Patrignano, mio figlio era un coglioncello perso. Dopo un anno sorrideva»

«Quando è entrato a San Patrignano mio figlio era un coglioncello perso. Dopo un anno sorrideva»

Il Fatto Quotidiano pubblica la lettera di Francesco Faina, padre di un ragazzo tossicodipendente che, quando aveva 16 anni, è stato accolto a San Patrignano. La famiglia, spiega, fece questa scelta dopo aver visitato altre comunità e sentito i pareri di diversi terapeuti. A spingerla verso San Patrignano, fu

“la consapevolezza che soltanto passando dal lavoro duro su se stessi, non per questo forzato, che avrebbe potuto salvarsi. Perché quando avevo a che fare con lui, avevo a che fare con un tossico: era la sua dipendenza ad agirlo e non volevo nessuna complicità con essa. Quando è entrato faceva tenerezza. Era un coglioncello perso. Lo abbiamo rivisto dopo un anno circa. Quel giorno mio figlio si presentò tutto contento. Avevo lasciato un ragazzino perso e avevo davanti mio figlio, luce, sorriso, bocca, occhi, parole, pensieri riconoscibili. Piansi molto ma sorrisi molto anche”.

Racconta la visita alla comunità, accompagnato dal figlio, la sensazione di energia che trasmettevano il luogo e i suoi ospiti.

“Andammo a mangiare nel grande salone comune. Provate voi a stare con altre 1.300 persone, in silenzio, prima di sedersi a tavola. Un respiro comune, una energia incredibile. È il respiro di 1.300 persone che lottano tutte per uscire dalla droga, per recuperare se stessi. Quando la sera uscimmo, abbracciai al cancello mio figlio. Avevamo occhi pieni di lacrime e di gratitudine”.

Il ragazzo uscì dalla comunità 4 anni dopo.

Quando è tornato a casa aveva la forza del mare e voglia di fare, non di farsi. Aveva imparato un mestiere, a Sanpa, ma aveva anche imparato a stare in piedi, a camminare facendo il suo percorso. Da allora non l’ho più perso. Sono pieno di meraviglia e ammirazione per lui”.

SanPa, scrive il padre, va inserita nel contesto dei tossicodipendenti. Definisce Muccioli un uomo “chiaroscurale”, “che si credeva un santone, che si comportava da padreterno, che forse è complice di un crimine…”. E conclude:

“Se si decide di puntare la luce su un fatto si deve essere consapevoli delle ombre. Ecco, la serie Sanpa ha forse questo limite: una lettura bidimensionale che fa finta di non avere priorità. Chi oggi conosce Sanpa, la vive e la giudica per quello che è riuscita negli anni a fare ed essere, anche e soprattutto grazie a Muccioli, e la gratitudine infinita che ognuno di noi ha provato e prova per la Comunità resta intatta”.

 

ilnapolista © riproduzione riservata