Pioli: «Mia madre mi dice sempre “da allenatore non hai vinto niente”. Ma dentro di sé è orgogliosa»
A Sportweek. «Un allenatore deve essere furbo, a volte deve far finta di niente, per il bene della squadra. Altre devi essere paraculo, perché in un gruppo ci sono equilibri sottili e bisogna pesare rischi e vantaggi»

A Sportweek:
Su Sportweek, settimanale della Gazzetta dello Sport l’intervista all’allenatore del Milan, Stefano Pioli, di cui ieri abbiamo dato un’anticipazione. Ci tiene subito a sgomberare il campo dagli equivoci: essere un allenatore normale non vuol dire avere poco carattere o poca personalità.
«Nel calcio troppo spesso si confondono l’educazione e il rispetto con la mancanza di carattere e di carisma. Io mi arrabbio spesso, anche se al Milan adesso un po’ di meno».
Un allenatore, dice, deve essere furbo.
«Più che altro bisogna essere furbi. A me piace essere schietto e diretto, ma a volte devi far finta di niente, dire e non dire, per il bene della squadra. Altre devi essere paraculo, perché in un gruppo ci sono equilibri sottili e bisogna pesare rischi e vantaggi nel tenere un comportamento invece che un altro».
Una cosa gli dà fastidio più di tutte le altre:
«Quando non ci si impegna abbastanza per ottenere il massimo da se stessi. È una cosa che mi fa imbestialire».
Pioli parla della sua famiglia, alla quale deve il fatto di aver imparato «i valori del rispetto e dell’educazione».
«Ho avuto un padre poco presente: al mattino faceva il portalettere, al pomeriggio il muratore o l’agricoltore. È mancato un anno fa e il ricordo più bello che ho di lui è la sensazione di sicurezza e protezione che provavo quando gli stavo vicino. Era una persona generosa. Noi avevamo veramente poco, ma quel poco lui era disposto a dividerlo con altri. I miei mi hanno trasmesso senso del lavoro e del sacrificio».
E’ stata la madre a crescere lui e i suoi due fratelli.
«Donna severa ancora oggi. Quando giocavo male, papà trovava sempre una giustificazione, mamma mai. Oggi, quando torno a casa, mi rimprovera: “Stefano, da allenatore non hai ancora vinto niente”. Ma dentro di sé è orgogliosa».
Fa un paragone tra i giocatori dei suoi tempi e quelli di oggi.
«Sono diversi per tutto ciò che gira loro intorno, ma, solo perché hanno la macchina potente o sono circondati da belle donne, troppe volte si dimenticano che sono ragazzi come lo siamo stati noi. Hanno bisogno di sostegno e di appoggio. Io offro loro chiarezza e rispetto, venendone ricambiato. Rispetto a loro, ai miei tempi noi giocatori non avevamo telefoni e computer. In ritiro facevamo notte giocando a carte o a Risiko, oggi ognuno sta col suo Ipad. Perciò non amo i raduni prepartita. Ma è cambiato il mondo, non il calciatore».
Nel suo passato da allenatore indica un rimpianto: la Lazio.
«È il mio rimpianto, perché il primo anno giocammo in maniera fantastica. Con l’esperienza che ho oggi avrei gestito in maniera diversa certe situazioni dentro la squadra. Non intervenni nella maniera giusta per risolverle. L’Inter? Non si può giudicare un allenatore per sei mesi di lavoro, e il livello della Fiorentina era quello di dove l’ho lasciata. In generale, rispondo che ci sono allenatori giovani che sono già completi, a me è servito più tempo. Oggi mi considero un tecnico adatto a qualsiasi squadra. E al Milan mi sento al posto giusto al momento giusto».
Con una proprietà «che non ti fa mancare nulla» e con tanta sintonia con Maldini, Massara e Gazidis.
Sullo scudetto:
«A Milanello dobbiamo essere equilibrati e intelligenti: la stagione scorsa siamo arrivati a 12 punti dalla zona Champions e a 17 dalla Juve campione. Non è giusto pensare allo scudetto quando sono passate appena dieci giornate. Dobbiamo solo avere il coraggio di continuare a crescere, essere ambiziosi e provare a vincere tutte le partite, perché siamo il Milan e abbiamo qualità. Ad aprile vedremo dove saremo».
Pioli racconta il suo primo incontro con Ibrahimovic.
«L’ho aspettato in palestra a fine allenamento. È arrivato che era buio. Ci siamo abbracciati, e mai avevo abbracciato uno così grosso. Ho conosciuto poche persone così intelligenti e simpatiche. Ma fuori dal campo, perché, dentro, Ibra è un animale. Ed è un complimento, sia chiaro».
Racconta cosa si sono chiesti a vicenda:
«Io, di mettere al servizio di una squadra giovane le sue qualità. Lui a me, di fare l’allenatore».
Maldini ha detto di lui che ha il marchio milanista, ma non si riferiva al tifo per una squadra di calcio, spiega.
«Papà tifava Inter, noi fratelli il Parma. Avevamo l’abbonamento allo stadio, pur se un anno con tutta la famiglia lo facemmo anche per la Reggiana, e non dovrei dirlo perché tra Parma e Reggio c’è una rivalità fortissima. È l’unica squadra che non potrei mai allenare. Ma giocavano in B, e avevamo voglia di calcio di livello un po’ più alto».