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Dall’Australia all’Europa è lockdown con le scuole aperte. De Luca è l’unico “responsabile” al mondo?

Il problema è “ideologico”: chiudere le scuole è considerata ovunque l’ultima ratio, la resa al futuro. Ovunque tranne che in Campania (e da ieri in Puglia)

Dall’Australia all’Europa è lockdown con le scuole aperte. De Luca è l’unico “responsabile” al mondo?

Ieri a Melbourne c’è stato un capodanno. Dopo 4 mesi, 112 giorni in tutto, i quasi 5 milioni di residenti nella seconda città australiana sono usciti – compunti e rispettosi delle restrizioni ancora vigenti – per festeggiare la fine di un durissimo lockdown. A Melbourne le scuole non hanno mai chiuso.

Sempre ieri, in un discorso alla nazione, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato almeno 30 giorni di chiusura. Ha spiegato che si potrà uscire di casa soltanto per andare al lavoro – quando non è gestibile quello da casa – per prendersi cura delle persone vulnerabili, fare una breve passeggiata sotto casa. E andare a scuola. Bar e ristoranti chiusi, così come i negozi non essenziali. Le scuole no. Scuole aperte.

Ancora ieri, Angela Merkel ha annunciato le nuove misure di lockdown per la Germania, al termine di un vertice con i Laender durato circa quattro ore e mezzo. “Misure dure”, ha detto la Cancelliera riconoscendo che il 75% delle infezioni, ormai, non è più tracciabile. Nella virtuosa e attenta Germania. Il nuovo lockdown durerà quattro settimane, a partire dal 2 novembre: prevede la serrata di ristoranti, bar, cinema, teatri, sale da concerto, saloni di bellezza, palestre, piscine e bordelli. Le scuole no. Le scuole restano aperte.

L’Irlanda è stato il primo Paese europeo a chiudere dopo la primavera, per sei settimane. Ed ha lasciato – repetita iuvant – le scuole aperte.

In Campania il Presidente della Regione Vincenzo De Luca, che le scuole le ha chiuse ormai da quasi tre settimane, s’è giustificato così:

“Io mamme degne di questo nome disponibili a mandare bambini a scuola in queste condizioni di contagio non ne ho incontrata nessuna”

Ciò dopo aver snocciolato cifre che in teoria avrebbero dovuto dimostrare l’insindacabilità della decisione: 400 contagi tra alunni e insegnati in una Municipalità, 200 in un’altra e così via. Trasformando quelle che normalmente sono percentuali in numeri assoluti, nel tentativo – riuscito – di rendere palpabile la drammaticità della situazione. Un trucco contabile: se dici 200 ottieni una reazione emotiva, se dici 1% ne ottieni un’altra, anche se sono sempre lo stesso numero.

Un attimo prima – nel solito monologo social senza contraddittorio – aveva accusato chi propugnava la chiusura delle scuole come ultima ratio di essere “irresponsabile”. Sì, anche noi, tra gli altri.

Esistono studi anche autorevoli che in qualche modo dimostrano che le scuole aperte – dove il tracciamento e isolamento rapido non sono lasciati al caso, come in Germania – aiutano a contenere l’epidemia invece che a diffonderla. E che l’impatto economico della chiusura degli istituti sul lungo periodo è perfino superiore a quello dovuto alla riduzione del reddito dei genitori a causa dalla crisi attuale. I più poveri poi sono sempre quelli che ci vanno di mezzo: secondo un rapporto pubblicato oggi da UNESCO, UNICEF e Banca Mondiale, gli studenti dei Paesi a reddito basso e medio-basso hanno già perso quasi quattro mesi di scuola dall’inizio della pandemia, rispetto alle sei settimane registrate nei Paesi ad alto reddito.

È un argomento complicato e ampiamento dibattuto, ma non è il punto. Non lo è il numero dei contagi, non le statistiche di diffusione della malattia tra i banchi, non il logico peso sul trasporto pubblico che scatena il movimento di bambini e genitori un paio di volte al giorno. Andiamo avanti dalla primavera analizzando dati spesso incongruenti e incompleti, formulando teorie su statistiche falsate e zoppe. La stessa chiusura per settori che pavidamente il governo sta portando avanti piano piano, non ha basi scientifiche: nessuno sa con certezza quanto un cinema sia più pericoloso di un supermercato. Sommiamo mele e pere, da marzo, sforzandoci di ricavarne un significato. Penalizzando una categoria più di un’altra, mandando al fallimento un commerciante prima d’un altro, un po’ a casaccio. Annaspiamo, in attesa di affogare.

In un contesto così – che non ammetteranno mai, se non alla resa finale – il punto, centrale, è invece proprio “ideologico”.

De Luca, che raramente si concede ai giornalisti, forse qualche domanda potrebbe farsela da solo: quale sarà il misterioso motivo per cui la scuola resta aperta nonostante tutto, sempre, praticamente ovunque?

La risposta non è nei numeri, non può esserlo. La risposta è – appunto – scritta nelle fondamenta della società: si può sacrificare tutto, anche a costo di danni irreparabili all’economia, nel tentativo di evitare una strage sanitaria, ma non la scuola. Che resta lì, col suo rischio-contagio inalterato (nessuno lo nega, semplicemente va valutato per quel che è), con le centinaia di studenti positivi snocciolati con fierezza dal Governatore, ma va fatta salva finché si può. È un rischio calcolato. Una zona franca. L’ultima cosa che chiude, nel mondo civile, sono le scuole, e non “gli ospedali” come ha penosamente rilanciato De Luca in un attimo di poca lucidità. Gli ospedali non chiudono mai, manco in guerra. Anche se i medici non li chiamiamo più “angeli” sono gli stessi “eroi” di prima. De Luca lo sa benissimo, visto che combatte una difficile battaglia politica col governo per veder riconosciuta alla Campania più personale ospedaliero.

Non è retorica. È realpolitik alla sua massima espressione.

La Francia, l’Inghilterra, la Germania, l’Irlanda, l’Australia che pure ha trattato la pandemia con un piglio durissimo, barricandosi dentro i confini e chiudendo la sua seconda metropoli per 4 mesi (da noi siamo agli scontri di piazza per la chiusura “anticipata” dei locali”…), non sono “irresponsabili”. Non certo più del governo italiano, che in queste ore sta assistendo allo sgretolamento del grande bluff: “noi rispettiamo le regole e la seconda ondata non ci colpirà”. Certo, come no. Persino l’Italia, di cui volente o nolente la Campania fa ancora parte, ha indicato la didattica a distanza solo per le superiori.

Hanno una scaletta delle priorità, tutto qui. Le scuole sono – evidentemente – al secondo posto, appena sotto la salute pubblica.

La Campania – una volta di più – è un caso a parte, non solo nazionale, ma europeo. Da ieri non è più sola: c’è anche la Puglia. E pure sono soddisfazioni.

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