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Mihajlovic è sempre lui, l’amico della tigre Arkan. La leucemia ha cambiato il racconto degli altri

Il buonismo mediatico lo ha avvolto dopo la malattia, quasi suo malgrado. E ora qualcuno si sorprende dopo l’intemerata al “piccolo” Caressa

Mihajlovic è sempre lui, l’amico della tigre Arkan. La leucemia ha cambiato il racconto degli altri

C’è un sacco di gente che nasconde le proprie malattie. Altri si nascondono dietro i malanni. Perché diventano un pregiudizio, un’arma o uno scudo. Sinisa Mihajlovic ha smesso di essere Sinisa Mihajlovic nel momento stesso in cui è andato in conferenza stampa per annunciare che aveva la leucemia. Pur restando incontestabilmente lui, ha messo una barriera, una patina traslucida tra se stesso e il racconto che se ne fa. Per dirla più frettolosamente: Mihajlovic è diventato buono, cattivo ma buono.

L’uomo con la coppola e il ciondolo in bella vista – con quel look da allenatore di pugili un po’ suonato, un Mickey di Rocky Balboa – che Gattuso potrà salutare concedendogli il gomito domani sera, è in verità sempre lo stesso, nelle sue variazioni di carattere e d’umore. Ha appena scontato una giornata squalifica dopo “aver mandato a quel paese” (confessione sua) quarto uomo e arbitro, fermandosi un attimo dalle parti di Sky per offendere Caressa, “quello piccolino marito di Benedetta Parodi”.

Una parte del mondo l’aveva nel frattempo “salvato” dal suo passato, perdonato. Gli aveva cancellato dalla fedina mediatica l’onore alla tigre Arkan, la rilettura dei genocidi, la misoginia, le aderenze ideologiche con la curva fascista della Lazio. Figurarsi la sorpresa di ritrovarselo lì, a rosicare in diretta tv schiumando cattiverie come un bulletto di paese. Alcuni, in verità, non aspettavano altro. Lo rivolevano com’era prima, “generoso, fiero e combattente ma anche ruvido, insofferente e a volte anche scortese e sgarbato” – come scrive Ziliani sul Fatto –  basta con “l’altarino” sul quale si erge Sinisa “Santa Maria Goretti”.

Abbiamo fatto tutto noi però. Mihajlovic è rimasto solo lì ad osservare la mutazione di prospettiva. Una volta nazionalista amico dei criminali di guerra, un’altra Garrone del Libro Cuore. Quando il popolo smanioso della altrui repellenza si sfama degli scoppi d’ira, del politicamente scorretto, dei commenti trucidi. La malattia – ma più che altro la confessione impudica dell’essere malato – ha disinnescato un’immagine che lui stesso s’è creato ad arte, affilandone gli spigoli. Netta. A volte insopportabile.

A Mihajlovic è sempre piaciuto parlare di se stesso, delle sue idee, delle sue radici. Di quelle soprattutto. Di farsi calamita di aneddoti. Per anni ha sbandierato la sua storia di figlio di madre croata e padre serbo, con la famiglia dispersa ai primi accenni di guerra. E’ stato lui a raccontare di quella partita – la finale della Coppa di Jugoslavia tra Hajduk Spalato e la sua Stella Rossa – in cui si ritrova faccia a faccia con Igor Stimac, difensore croato dell’Hajduk, che per provocarlo gli dice: “Prego Dio che i nostri uccidano tutta la tua famiglia a Borovo”. “Avrei potuto ucciderlo a morsi”, disse qualche anno dopo.

Ma è grazie all’intercessione di Arkan che la famiglia di Mihajlovic viene portata in salvo, venendo trasferita da Borovo a Belgrado. Quando Mihajlovic arriva sulla panchina della Fiorentina, Adriano Sofri scrive su Repubblica:

“Arkan era stato il capo degli ultras della Stella Rossa, quando era ancora un feroce delinquente comune, e prima di diventare un capo di massacratori, stupratori, torturatori, kapò e saccheggiatori di migliaia di civili innocenti. Mihajlovic era amico di Arkan, e si dice fiero di non rinnegare gli amici: ma c’è una differenza fra rinnegare un’amicizia e ripetere ancora oggi che «Arkan è stato un eroe del popolo serbo». Dice Mihajlovic: «Siamo un popolo orgoglioso. Siamo tutti serbi. Preferisco combattere per un mio connazionale». La frase dell’orgoglioso Mihajlovic somiglia a quella che avrebbe potuto dire un tedesco al tempo di Hitler: «Siamo un popolo orgoglioso. Siamo tutti tedeschi. Preferisco combattere per un mio connazionale». La dissero in tantissimi, pochissimi invece se ne vergognarono. Quei pochissimi riscattarono l’umanità”.

Mihajlovic non ha mai riscattato niente, non glien’è mai fregato. Lo hanno fatto altri per lui, all’annuncio della leucemia. Le lacrime, il racconto della resistenza, il Bologna che gli si stringe attorno. La retorica della battaglia da vincere lui ce l’aveva già dentro. Mladic era nella sua visione leggermente partigiana “un grande guerriero che combatte per il suo popolo”. Occorre didascalicamente ricordare che Mladic, detto il macellaio di Bosnia, è stato condannato dal Tribunale internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità e genocidio.

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Che direbbero oggi sui social se sapessero di quella volta che ammise di aver insultato Vieira dandogli del “negro di merda” durante un Lazio-Arsenal di Champions League. Non si scusò mai (ma puntualizzò che l’offesa era “merda” non certo “negro”), perché Vieira non aveva avuto il coraggio di ammettere le proprie provocazioni. “A Donetsk un mese fa mi hanno spaccato uno zigomo: non ho fiatato”. Come fanno i veri uomini.

All’Inter, da secondo di Mancini, ritrovò Vieira. E anche Ibrahimovic, che in un Juventus-Inter del 2005 gli aveva rifilato una testata. E alla Fiorentina capitò lo stesso con Mutu cui aveva sputato durante un Lazio-Chelsea di Champions League. I rapporti sono tutto.

Ha poi acquistato saggezza, col tempo: “Le persone cambiano. Quando ero giovane, andavo a sottrazione, andavo a dividere il noi dagli altri, avevo bisogno dei nemici perché era quello che mi stimolava. Ho imparato tanto, ho capito tante cose e ora punto ad accumulare esperienze”.

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