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Da Jordan ad Armstrong: a quanti patti deve scendere il regista pur di raccontare gli eroi?

La Faz e il rischio apologia dei documentari sportivi. Il regista Frears: «Perché far parlare un bugiardo?». Kapadia ha dimostrato che contano di più le immagini

Da Jordan ad Armstrong: a quanti patti deve scendere il regista pur di raccontare gli eroi?

Michael Jordan. Non è stato il primo, ma in questo momento in cui le storie di sport piacciono sporche e cattive, Jordan è il punto di non ritorno. The Last Dance, il documentario di Netflix che ha tenuto incollato gli sportivi del mondo in lockdown davanti alla storia un po’ artefatta dell’ultimo titolo dei Chicago Bulls, è una chiave di lettura: non conta più l’epica, ma la dannazione in controluce. Subito dopo, infatti, è scattato Lance, documentario di 4 ore di ESPN su Armstrong e la sua vita dopata. Il fenomeno del racconto “drogato” da un punto di vista eccessivo, ma non proprio oggettivo, è definitivamente scoppiato. Rimbalzando però proprio sulle critiche all’esaltazione apologetica del protagonista.

Ne scrive la Faz, sottolineando la lettura in soggettiva che rischia di rielaborare alcune storie dello sport.

Deve essere stato bello per lui – per Armstrong – essere di nuovo al centro dell’attenzione. Nessuna emittente televisiva gli aveva fornito un tale palcoscenico dal momento della sua confessione nel 2013. È stato necessario tenersi a distanza da un truffatore sportivo che ha cercato di raccontarsi come vittima, con i suoi tentativi di giustificarsi. Soprattutto perché la storia potrebbe essere raccontata molto bene anche senza di lui. Come dice Stephen Frears, il regista del film “The Program”: “Perché dovresti parlargli? È un bugiardo. È indiscutibile”.

Il bugiardo Armstrong

Invece la regista di Lance, Marina Zenovich, mette da parte questa preoccupazione. “Il risultato è che Armstrong, che ha conservato gran parte delle sue ricchezze e vive una vita agiata, senza problemi, può per la prima volta raccontarsi come un soggetto apparentemente credibile”.

“In questo modo – scrive la Faz – Zenovich aiuta a banalizzare. Il mondo delle bugie di Armstrong è normalizzato, e le sue azioni criminali ne escono minimizzate. Zenovich ha sempre respinto il sospetto che Armstrong avesse un’influenza diretta sulla versione finale. Ma lo scetticismo riguardo agli accordi tra i registi di un numero crescente di documentari su famosi sportivi e i divi, è fondato”. Una delle accuse che vengono mosse a The Last Dance è che Jordan fosse coinvolto nella produzione, potendo così censurare una parte del racconto grazie ad un diritto di veto su una parte significativa del materiale di archivio utilizzato.

“Non è una novità che i documentari raccontino storie autentiche ma sapientemente manipolate”.

Il prossimo è Tom Brady

Il prossimo big a finire nella lista – prosegue la Faz – sarà Tom Brady, il campione di football americano di maggior successo degli ultimi vent’anni. “Il format del documentario ha i suoi punti di forza – scrive il quotidiano tedesco – Si prestano bene alla rappresentazione di tipi molto complicati, come OJ Simpson. O di storie intricate, come quella di Grigori Rodchenkov ex direttore del laboratorio antidoping di Mosca, protagonista di “Icarus”.

Ma all’opposto vale l’esempio dei lavori di Asif Kapadia che è riuscito a dipingere “Senna” e “Maradona” senza un coinvolgimento in prima persona dei protagonisti. Il documentario sul pilota brasiliano è stato costruito assemblando materiale d’archivio, riuscendo a risvegliare il dramma e i rischi degli sport automobilistici, ma anche la venerazione illimitata per Ayrton Senna, sottolineato gli intrighi dei grandi rivali dietro le quinte.

E per Maradona Kapadia ha sì intervistato l’argentino ma senza input troppo diretti. L’intervista non è il cuore del film. Lo spiega proprio Kapadia: “La persona famosa che incontri e con cui trascorri il tuo tempo raramente è la testimonianza più affidabile della sua storia”.

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