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Kapadia e il suo viaggio al termine di Maradona

Il documentario è un racconto vaccinato ai luoghi comuni. C’è tutto: l’immensità, la caduta, il razzismo e l’odio dell’Italia per lui, Napoli che lo soffoca. Ferlaino dice: «Sono stato il suo carceriere». La verità (finalmente) su Italia-Argentina del 90

Kapadia e il suo viaggio al termine di Maradona

La prima è scena è Anni Ottanta purissimi. Sembra un inseguimento, di quelli dei B-Movie. Sui Lungomare libberato (con due b) che all’epoca era occupato eccome da automobili. È un filmato inedito da un’auto della polizia che fa parte del servizio d’ordine che il 5 luglio 1984 accompagna Diego Armando Maradona allo stadio San Paolo per la sua presentazione.

Comincia così “Diego Maradona” il docu-film di Asif Kapadia che aveva già raccontato Ayrton Senna e Amy Winehouse. Diego non ha bisogno della morte per essere considerato un idolo. Il sottotitolo del film è: Ribelle. Eroe. Sfrontato. Dio. Anche da vivo.

Circa due ore intense quasi come la vita di Diego. Due ore che praticamente mai fanno concessioni ai luoghi comuni. Anzi. Il rapporto con Napoli è crudo, non nasconde nulla. Molto diverso dalla retorica che poi ha provveduto a fare opera di rimozione. L’unico neo è quando riporta, senza opporre nulla, il tg francese che descrive Napoli come la città più povera d’Italia se non d’Europa che aveva realizzato l’acquisto più costoso della storia del calcio. È un errore tanto comune quanto grossolano. Napoli negli anni Ottanta non era affatto povera, era una città potente.

«Quando sono arrivato, c’erano 85mila persone. Quando sono andato via, ero da solo».

Ne dice tante Diego: «Non mi voleva nessun altro club e sono venuto a Napoli». «Tutto era al ribasso. Volevo una villa e mi hanno dato un appartamento. Avevo chiesto una Ferrari e mi hanno dato una Fiat». «Ai napoletani non interessa dei figli, della mamme, l’unica cosa che interessa loro è come gioca il Napoli la domenica». Inconsapevole, sull’aereo che lo sta portando via Da Barcellona, dice al giornalista tv Giorgio Martino: «A Napoli chiedo la tranquillità e il rispetto».

Kapadia la retorica non sa nemmeno che cosa sia. Lascia parlare le immagini e le correda con dichiarazioni. Di Maradona. Del preparatore atletico Fernando Signorini – con la sua differenza tra chi è Diego e chi è Maradona. Della donna della sua vita: Claudia. E di altri.

Il film non è solo Napoli. Parte da Villa Fiorito. Dalla povertà. Dal suo primo contratto, firmato a 15 anni. L’Argentinos Juniors gli regalò un appartamento. «Era lui – racconta la sorella – a mantenere la famiglia. Ha provveduto sempre lui a tutto, da quando aveva 15 anni».

Il montaggio non lascia il tempo di respirare. La claustrofobia di Napoli è anche visiva. Maradona racconta il suo rapporto con la cocaina, la tirava dal lunedì al mercoledì e poi il giovedì cominciava la pulizia. Rapporto che era diventato sempre più di dipendenza, dopo il 1989. «Sono stato il suo carceriere» ammette fuori campo la voce di Corrado Ferlaino. Diego, è storia nota, sarebbe voluto andato via dopo la Coppa Uefa del 1989. L’Ingegnere non mantenne la promessa. Col senno di poi, fu la rovina sua e in parte anche del Napoli.

Racconta il rapporto con i Giuliano. Il primo incontro. «Mi trovai a casa loro, a cena, al mio fianco c’era lui con la pistola. Sembrava una scena de “Gli intoccabili”». Gli fornivano la roba. In cambio gli chiedevano favori. E Kapadia mostra che quei favori altro non erano che atti di presenze a ricevimenti familiari o a feste di quartiere. In cambio, aveva quasi sempre un Rolex d’oro. Una sera citofonarono a casa sua a mezzanotte. Lui era in compagnia del giornalista argentino Arcucci: “Vieni – gli disse – ora ti faccio vedere la vera Napoli”. Andarono a una festa a Forcella.

Ovviamente c’è la paternità di Diego Armando junior.

La metamorfosi di Maradona a Napoli è visibile a occhio nudo. Si ingrossa. Si intristisce. Non ride più. Sopporta. Scuote la differenza tra i festeggiamenti del primo scudetto e del secondo. Quel 10 maggio 1987 Maradona è felice come un bambino. È consapevole di aver dimostrato al mondo intero di essere il più forte. Alla faccia di Pelè di cui Kapadia mostra una frase intrisa di invidia: «È forte ma non so se ha la forza psicologica per reggere alle pressioni». E lui in meno di un anno vinse un Mondiale da solo e portò a Napoli il primo scudetto.

Tre anni dopo, al termine di Napoli-Lazio, una telecamere lo inquadra mentre al triplice fischio finale cammina e al massimo alza le braccia con i pugni chiusi. Tremendo quel lungo primo piano alla festa di Natale del 1990, con Careca sullo sfondo. Lo sguardo triste di un uomo effettivamente prigioniero, e consapevole di esserlo. All’epoca anche Maradona era schiavo del contratto.

Kapadia non risparmia nulla all’odio dell’Italia nei confronti suo e di Napoli. Al suo ruolo di condottiero che sfida il razzismo del Nord. Un odio crescente e che raggiunge il suo punto massimo ai Mondiali di Italia 90. Viene fischiato in ogni stadio, fischiano anche l’inno (una novità assoluta). Chissà se il regista sapeva del falso storico che da sempre accompagna la semifinale tra Italia e Argentina. Fatto sta che lo smonta a modo suo, con le immagini. Napoli tifò Italia, con buona pace di Vicini che creò la fake news ancora oggi in voga.

È bravo il regista londinese di origine indiana a individuare in quella eliminazione lo spartiacque del rapporto tra Maradona e l’Italia. Gliel’avrebbero fatta pagare. E come sempre accade da noi – accadde anche con Pantani, tanto per fare uno dei millemila esempi – mandarono avanti la magistratura con le intercettazioni (toh, chi si rivede). È da cineteca l’immagine del pm Bobbio che dichiara tronfio che sarebbe rimasta per sempre – nero su bianco – l’accusa di droga nei confronti del fuoriclasse argentino. Fu la prima volta che venne fuori ufficialmente la storia della cocaina. Il resto è storia nota. Napoli-Bari. Il suo addio.

Kapadia ce lo fa poi rivedere in uno studio tv, ospite ancora di Arcucci, nel 2004, in lacrime mentre racconta la sua lotta contro la dipendenza dalla cocaina. E quando Arcucci gli dice: «È un’altra battaglia, ne hai vinte tante», lui risponde: «Sto perdendo per ko».

“Diego Maradona” di Kapadia è un pugno nello stomaco. Un film senza moralismi. Un viaggio al termine della vita di un uomo che è stato anche Dio.

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