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Lance Armstrong, l’altra faccia dello sport: “è un miracolo se non sono diventato un serial killer”

Su ESPN il documentario che fa il controcanto a The Last Dance. Educato all’imbroglio sin da piccolo. Per il Guardian “è uno studio sulla corruzione dell’ego atletico maschile”

Lance Armstrong, l’altra faccia dello sport: “è un miracolo se non sono diventato un serial killer”

Dopo Michael Jordan, Lance Armstrong. Solo che “Lance” è in realtà l’ultimo ballo di Armstrong. Tanto quella di Netflix è un’operazione astutamente agiografica sul “più grande giocatore di basket di tutti i tempi”, tanto le due puntate prodotte da ESPN su Lance Armstrong sono un viaggio di 4 ore nel ciclismo sporco e cattivo. Un ribaltamento dell’epica. Un The Last Dance al contrario.

È il momento dei grandi documentari sportivi, questo. E tanti ne seguiranno visto l’incredibile successo della serie sui Chicago Bulls. Ma intanto esce questo Lance, e tutto il racconto gira attorno all’atleta crudo, “insensibile già nell’utero”, che diventerà un campione dopato, “ma è un miracolo che non sia diventato un serial kille”. Questo è il tono, questo è il registro, come scrive il Guardian. Lo sport comincia ad essere raccontato in un’altra maniera, ormai è un genere a parte.

Dentro c’è un po’ di tutto: c’è il patrigno di Armstrong, Terry Armstrong, che afferma che “Lance non sarebbe il campione che è oggi senza di me, perché l’ho guidato. L’ho guidato come un animale”. C’è Armstrong che spiega come ha contraffatto il suo certificato di nascita per passare per sedicenne e gareggiare nel suo primo triathlon, razionalizzando l’inganno così: “Falsifica il certificato, gareggia illegalmente e batti tutti”. Che è la versione illegale della cattiveria agonistica di Jordan.C’è il ciclista Bobby Julich che ricorda come, alla fine della sua prima gara testa a testa contro Armstrong, quando erano ancora entrambi adolescenti, Armstrong gli urlò: “Dai, fottuta fighetta, andiamo, non ho ancora finito con te!”.

La violenza informale, il disinteresse insensibile per le regole e i sentimenti degli altri: Armstrong non ci è arrivato in età avanzata, da ciclista professionista. Era già così – scrive il Guardian – Nato in un sistema marcio, Armstrong è rimasto marcio. Ciò che emerge alla fine di queste quattro ore è la storia non tanto di una singola mela marcia, quanto di un lotto intero andato a male. Tra la brutalità, la competizione e l’insicurezza della vita nell’America post-Reagan, c’è da meravigliarsi se un uomo come Lance Armstrong è stato in grado di mentire, imbrogliare e fare il prepotente fino all’apice del successo? Il problema non è quest’uomo in particolare, sembra che il regista, Zenovich, voglia dirci: è l’incurabile ambizione e violenza di uomini così, la fragilità della loro morale.

Ovviamente al cuore del racconto c’è il cancro, le sue prime esperienze col cortisone e gli ormoni della crescita, le sette vittorie consecutive del Tour de France, la sua belligeranza di fronte alle accuse di doping e il disfacimento finale della sua carriera, dal 2010 al 2013. Zenovich afferma che Armstrong non ha fissato regole di base per le loro chiacchierate ma non riesce a identificare, anche dopo due anni di lavoro su Lance, esattamente quale sia stata il motivo per cui si sia prestato. È stato un esercizio di riabilitazione dell’immagine? Un tentativo, nel linguaggio cliché della redenzione sportiva, di “raccontare la sua storia”? “Non lo so davvero”, afferma Zenovich. “Ma ci sono arrivato con il cuore aperto. Ho provato a cavalcare il bene e il male”.

In Lance – scrive il Guardian – non vediamo il rimorso o l’autoriflessione. I pronomi preferiti di Armstrong nel documentario sono “tu” e “noi”. “Io” mai. “L’unico modo in cui puoi drogarti ed essere onesto è se nessuno te ne chiede mai conto, il che non è realistico. Oppure se qualcuno chiede, tu menti. Abbiamo mentito tutti”.

Il doping, sostiene Armstrong, “era già radicato nello sport, quando sono arrivato io da Plano, in Texas”. La sua tesi è che era un ingenuo, spinto nelle fauci di uno sport malvagio. Eccolo, ad esempio, sull’uso dell’EPO sotto la guida di Michele Ferrari, a partire dalla metà degli anni ’90: “I benefici in termini di prestazioni sono stati enormi. Lo sport è passato dal doping a basso numero di ottani, che era sempre esistito, a questo carburante per razzi. Questa è stata la decisione che abbiamo dovuto prendere…”.

Truffare, in altre parole, è stato un lavoro collettivo, il che rende facile resistere alla responsabilità personale. Armstrong si rivela un maestro nell’eludere la domanda, nel riformularla, ridefinirla per proiettarsi in una luce migliore. L’accusa di aver usato Livestrong, la sua fondazione per il cancro, come “scudo” per proteggersi dalle accuse di doping è “ingiusta”, sostiene, “anche se di tanto in tanto ho usato il cancro come scudo”.

L’unico vero momento di vulnerabilità del documentario arriva quando Armstrong riflette sulla sua amicizia con Jan Ullrich, il vincitore del Tour del 1997. Nel 2018 Armstrong si recò in Germania per visitare Ullrich, che era appena stato dimesso dall’ospedale psichiatrico nel quale era stato ricoverato dopo una serie di accuse di aggressione. “Il motivo per cui sono andato a trovarlo è che lo amo”, risponde Armstrong, prima di scoppiare in lacrime. “Non è stato un bel viaggio. È stata la persona più importante della mia vita”.

The Last Dance è la celebrazione del successo e della competizione. Lance è uno studio sulla corruzione dell’ego atletico maschile. La linea di demarcazione tra Michael Jordan – sfacciata, insensibile, dotata, di grande successo – e Lance Armstrong – sfacciata, insensibile, dotata, di grande successo ma imbroglione e drogato – è sottile come una siringa, scrive il Guardian.

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