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In Cina hanno “risolto” isolando i contagiati lievi, li hanno separati dalle famiglie

È un modello non replicabile. La cura cinese si basa su un piano pervasivo e articolato, che prevede strutture dedicate per tutti i positivi. Da noi restano in famiglia

In Cina hanno “risolto” isolando i contagiati lievi, li hanno separati dalle famiglie

La Cina, dice. La Cina ha risolto. La Cina ha nuovi casi zero, tanto che ora ha chiuso le frontiere agli stranieri per evitare il contagio di rimbalzo. Per cui – è logica stringente – dobbiamo fare come ha fatto la Cina: la pandemia di Covid-19 si combatte così. Ma così come?

Quello cinese è diventato un “modello” quasi per disperazione. Un modello astratto. Del quale parlano tutti senza saper bene di cosa effettivamente sia fatto. Per lo più basandone il preteso successo su considerazioni politiche all’acqua di rose: è una dittatura, loro sì che hanno chiuso la gente in casa, mica come da noi…

In realtà la cura cinese si basa su un piano pervasivo e radicale, molto complesso e articolato, che prevede un dispendio immenso di risorse e una efficacia metodologica che nei Paesi occidentali è quasi impossibile da replicare. Lo ha scritto molto bene il Wall Street Journal.

Il modello incide sulla “fascia di mezzo”, quella che da noi è considerata poco o nulla e che in realtà è il vero perno della crisi: i contagiati non gravi, i positivi poco sintomatici o asintomatici. Gli “untori” involontari. Da noi sono – tuttora – lasciati liberi di agire, per manifesta impossibilità strutturale di trattarli. In Cina sono il fulcro di tutto. Hanno puntato tutto l’individuazione capillare degli infetti, o dei potenziali positivi. Secondo le autorità locali a fine gennaio facevano 200 test al giorno, a metà febbraio erano saliti a 7000 ogni giorno.

“Il cordone sanitario che ha avuto inizio intorno a Wuhan e in due città vicine il 23 gennaio – scrive il WSJ – ha contribuito a rallentare la trasmissione del virus ad altre regioni della Cina, ma non lo ha davvero fermato, nemmeno a Wuhan. Il virus ha continuato a diffondersi tra i familiari nelle case, in gran parte perché gli ospedali erano sopraffatti e non riuscivano a gestire tutti i pazienti. Ciò che ha davvero invertito la tendenza a Wuhan è stato il passaggio, dopo il 2 febbraio, a un regime di quarantena più aggressivo e sistematico in base al quale i casi sospetti o lievi – e persino semplicemente i contatti di casi confermati – sono stati trasferiti e sistemati in ospedali sorti in fretta e in centri di quarantena temporanei”.

Una macchina che si è messa in moto imponente, e che ha requisito centinaia e centinaia di scuole, hotel
e altri edifici per trasformarli in centri di quarantena. Hanno costruito due nuovi ospedali da zero e allestito altri 14 ospedali temporanei in edifici pubblici.

In pratica è stato portato avanti un isolamento a strati, di massa, con una profondità di intervento inimmaginabile da noi, per progettare un futuro contesto parzialmente “dequarantenizzato” sicuro. La separazione drastica dei contagiati dal resto della popolazione non può risolversi nel tenerli a casa, in famiglia. Perché proprio la famiglia diventa il motore propulsivo dell’epidemia. Ma per farlo occorrono mezzi, strutture dedicate.

Tutti passaggi – scrive il WSJ – che vanno ben oltre quanto previsto nelle città occidentali duramente colpite. Di conseguenza, gli esperti affermano che i recenti blocchi negli Stati Uniti e in Europa potrebbero certo rallentare la crescita di nuove infezioni – se correttamente applicate – ma non saranno sufficienti per fermarlo, o impedire il tragico sovraffollamento degli ospedali.

La Cina, sui media occidentali, si è trasformata in poco tempo da “causa” del male a “soluzione”. Anzi: una speranza. Loro hanno risolto, basta fare come loro. Ecco, prima bisognerebbe capire cosa effettivamente hanno fatto, per trarre la lezione giusta, e non quella semplicistica.

 

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