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Il partito dell’ipocrisia che voleva il calcio in chiaro

Visto che dobbiamo stare a casa e che lo stadio ha le porte chiuse, regalateci le partite. È welfare spicciolo. Ci piace così, educati alla questua

Il partito dell’ipocrisia che voleva il calcio in chiaro

La carità negata ai tifosi orfani dello stadio è andata in onda a palinsesto già bloccato: di venerdì non si faceva in tempo a redistribuire il pallone gratis nelle case degli italiani, troppo tardi. La Serie A resta nei decoder di chi si li è pagati, e nella retorica dell’accattonaggio emergenziale. Ci ha provato il governo, la Figc, ma la Lega ha detto no. Niente Juventus-Inter sulla Rai, o su Mediaset. Niente domenica dell’Italia unita, ma a distanza d’un metro. Niente messa al mattino e partita post-prandiale. Niente rito della famiglia cattolica, le paste in tavola, il nonno che si abbiocca, bambini fate silenzio. Questa voglia di c’eravamo tanto amati che d’un tratto ci assale nel pieno della psicosi, per dirci tutti solidali l’un con l’altro, alla ricerca del conforto popolare. Manco fossimo negli 70. Ci piacerebbe, ma no. E non siamo nemmeno in guerra, altra analogia che in queste ore rimbomba forte nelle fragilità di troppe generazioni senza memoria.

Siamo scollati dalla realtà, questo sì. Arresi all’idea omologata che le restrizioni sociali per decreto comportino un’attenzione, un tatto, una sobrietà che in fondo non ci appartiene: non litigate, che c’è gente che muore. È il non-argomento che non fa prigionieri, non se ne esce. Davanti ai morti non si discute. In Italia si prega, al massimo. Al contempo, però, la società rincorre il palliativo. Visto che dobbiamo stare a casa e che lo stadio ha le porte chiuse, regalateci le partite, decriptate il segnale. E’ welfare spicciolo. Ci piace così, educati alla questua.

Per cui il ministro Spadafora, interprete per il suo dicastero dei bisogni degli italiani chiede la trasmissione in chiaro dei recuperi dell’ultima giornata rinviata. Il diritto alla tv, si fottano i diritti tv. La Figc gli si accoda, e la Lega – che appena sette giorni fa aveva annullato le partite “perché senza pubblico è brutto” – risponde che non si può fare. Ci sono le leggi. Ci sono i contratti. Lo faccia, il governo, un decreto d’urgenza di sabato, se ne è capace.

Ma il partito dell’ipocrisia, che sputa sul vil danaro, e sulle regole, ha già vinto. Perché nel frattempo attorno all’ipotesi del Derby d’Italia strappato alla pay tv a fini benefici si scatena la cagnara: la Rai “si dice disponibile” a trasmettere Juve-Inter su Rai 1, ma Mediaset si sacrificherebbe altrettanto volentieri, e, anzi, ci tiene proprio. Tanto che minaccia cause, perché il livello è quello degli asili che adesso son chiusi: “perché la Rai sì e noi no?”. Prima che la Serie A fermi la rissa il danno d’immagine è già incassato.

Non bastasse, poi, il dettaglio di una querelle portata avanti con le lettere – un altro po’ col fax – mentre lì fuori le partite girano sull’iptv altrimenti detta pezzotto. La nenia del povero italiano sconsolato a cui concedere il calcio come genere di conforto è avvilente come la consapevolezza che in chiaro o no, al tifoso non fa granché differenza. Nel 2020 non si va allo stadio per vedere la partita in alternativa al divano, è un’esperienza parallela. Le porte chiuse non sono un problema perché impediscono a qualche migliaio di persone di “guardare” un match, ma perché semmai impediscono a chi sta davanti alla tv di godersele appieno: tristezza dello sport senza pubblico, del silenzio dove di solito vince la bolgia. Il vuoto è anticlimatico. Tutto qua.

Ormai collezioniamo “specchi del Paese”, sempre più avvilenti. Il tafferuglio tra tv, Serie A, Figc e governo sul calcio in chiaro distribuito a parziale rimborso per il disagio arrecato da un’epidemia internazionale mancava: riflette i nostri istinti più bassi, il qualunquismo cialtrone, l’imperizia senza vergogna. E’ a suo modo illuminante.

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