Tutto era pronto per giocare. Poi si entrò in una dimensione di sospensione temporale. Il centravanti calciò a botta di sicura di sabato ma il pallone si bloccò fino al lunedì
Gli autobus con le due squadre, la capolista e una delle più dirette inseguitrici, arrivarono allo stadio con largo anticipo. L’importanza della partita richiedeva silenzio e concentrazione. Il silenzio, ecco, in quei giorni nella nazione nella quale si svolgeva il campionato, fino a quel punto regolare – d’altronde non si erano manifestate circostanze o situazioni che lasciassero presagire intoppi nel regolare andamento delle partite – intervenne un fattore esterno, un virus. Per evitare contagi, o comunque per far vedere che il Governo e la federazione sportiva si stavano prendendo a cuore il problema, la partita – che come detto – di rilevanza estrema ai fini della classifica (insieme ad altre di minore importanza, secondo la federazione, di eguale importanza, secondo i tifosi di queste ultime compagini) si sarebbe svolta a porte chiuse. Pubblico a casa, nessun coro, nessun incitamento, nessuna esultanza in caso di gol, nessun grido di disappunto per un’occasione mancata, nessun afflusso regolare allo stadio, nessun accenno di rissa, nessun deflusso a fine partita.
I calciatori, silenzio o meno, erano pronti. Il riscaldamento era cominciato. Là sarebbe seduta mia moglie, disse l’attaccante; laggiù i miei figli, sussurrò commosso il portiere; il centrocampista palleggiò a centrocampo poi calciò all’incrocio dei pali, nella porta vuota. Si applaudì da solo, finse un inchino verso la tribuna deserta. L’umore era comunque buono, le due squadre non vedevano l’ora di giocarsela.
La federazione sportiva con un colpo da maestro decise di cambiare di nuovo le carte da gioco, di rimescolare il mazzo, di sottrarre, di aggiungere, di stravolgere, di meravigliare. La partita non si sarebbe disputata (né questa, né le altre partite considerate minori, ma che non erano sono affatto per i tifosi di quelle squadre, come detto). I giocatori rientrarono negli spogliatoi, non sapendo se fare la doccia o meno (problema non di poco conto), non sapendo se tornare a casa o al centro sportivo. La partita, questa come le altre, sarebbe stata recuperata a maggio, ed eravamo all’inizio di marzo. A quel tempo le situazioni di classifica sarebbero state diverse, i giochi potrebbero essere fatti, non fatti, perduti, decisi. Alcuni calciatori avrebbero potuto essere infortunati, altri squalificati, altri chissà dove.
La federazione ci ripensò (essendo un ente che pensava – e ripensava – di continuo) e propose di recuperare le partite nel fine settimana successivo, spostando la regolare giornata – tutta intera – a maggio; ma la partita più importante di lunedì, a porte aperte, chiuse, a porte chissà.
Tutto però era moralmente e psicologicamente compromesso. Alcuni giocatori non sapendo che fare se ne andarono al mare, dove organizzarono tornei di calcetto sulla sabbia, altri restarono, fedeli ai contratti, pronti a giocare. Le partite però seguivano un regolamento casuale che si rinnovava di volta in volta.
Accadeva che un centravanti calciasse a botta di sicura di sabato ma che il pallone si bloccasse e non si sapesse fino al lunedì (nei casi migliori) se entrasse o meno. Un difensore chiamato dalla panchina si riscaldò per duecento minuti e prese fuoco. Un terzino si sovrappose sulla fascia, ma arrivato sul fondo, pronto a crossare, si accorse che il fondo non finiva, dovette proseguire la sua corsa all’infinito, oltre lo stadio, il piazzale antistante lo stadio, fino ai parcheggi, alla tangenziale, alle autostrade, a un cavalcavia. Successe che un tornante parti in contropiede e saltò un terzino, poi ne saltò un secondo, poi ne saltò un terzo, ne evitò un quarto, con un tunnel si liberò del quinto terzino, disorientò il sesto, evitò il settimo con un cambio di direzione, all’ottavo si suicidò, ma non morì, perché la federazione non l’aveva previsto.
La classifica dei cannonieri dovette essere rielaborata. Il primo in classifica dovette aspettare che tutti i gol fatti si realizzassero per davvero, quasi trenta azioni che non si concludevano, palloni che ondeggiavano, senza risolversi, tra palo e portiere, tra linea di porta e linea immaginaria mobile ideata dalla federazione. Un minuto i gol erano dieci, un minuto erano venti, il minuto dopo non esistevano gol. Così per tutti i componenti della classifica dei marcatori.
Che dire dei portieri, naturalmente, per ogni gol che non si concretizzava né a posteriori né retroattivamente, si contavano migliaia di parate non effettuate, di tuffi plastici mai conclusi. La cosa creava anche dei problemi di natura psicologica. I portieri si interrogavano, in questi voli perenni, la prendo o non la prendo? Entra o non entra? Il mio difensore salva sulla linea o non salva? Va fuori di poco o non va fuori? Colpisce il palo o no? Palo interno e gol? Palo esterno e fuori? Palo interno, rimbalzo sull’altro palo e gol?
Le combinazioni erano pressoché infinite. I portieri, i difensori, i centrocampisti, gli attaccanti, gli allenatori, i tifosi, furono tutti prima o dopo ricoverati. Non certo per il virus che da problema si era trasformato in spettatore. I reparti neurologici andarono in overbooking. I campionati non potettero essere annullati perché nessuno li trovò. Non puoi sospendere una cosa non cominciata, rinviare una cosa non prevista.
Si concluse che, volendo andare a condizionare le giornate a venire del campionato di calcio, se ne condizionava il passato. Del resto ogni filosofo, ogni scienziato sa che il futuro è retto dalla memoria. Se i gol del passato non erano avvenuti perché bloccati in un tempo sospeso, nessun gol del futuro avrebbe potuto essere.
Nottetempo un giornalista entro nella sede della federazione e scoprì un funzionario che guardava vecchie partite dei campionati degli anni settanta, un calciatore colpiva di testa e rimaneva sospeso in aria per sempre, il pallone andava verso la porta e non entrava mai. Gli almanacchi prima, la storia del paese poi, erano da riscrivere.