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«Il moralismo un tanto al chilo con cui racconteranno Flavio Bucci “l’uomo dal talento in rovina”»

Su Repubblica strepitoso articolo di Stefano Massini. “La sua forza stava nel portare in scena la cronaca sputata dei suoi abissi. Non recitò Ligabue, era Ligabue”

«Il moralismo un tanto al chilo con cui racconteranno Flavio Bucci “l’uomo dal talento in rovina”»

In edicola con Repubblica potrete trovare un articolo sontuoso di Stefano Massini sulla morte di Flavio Bucci. L’articolo. Coloro i quali non lo leggeranno, non avranno letto nulla di Bucci. Ne riportiamo qualche estratto.

C’è solo l’imbarazzo della scelta per chi vorrà infierire: “la triste fine dell’istrione in rovina”, “l’uomo dal talento bruciato” e giù col repertorio sul divo mancato che non si salvò dai gorghi del Male. Moralismo allo stato puro, buono da vendersi un tanto al chilo in un’epoca come questa in cui il pacchetto “genio-dannato” pare dischiudere nuovi filoni aurei nella sua iper-sfruttata miniera, e tocca sopportare la passerella strombazzante di circa un paio di nuovi Baudelaire al giorno.

Cercava il pubblico e al tempo stesso lo detestava, preso com’era da una foga da collezionista di fallimenti umani. Era l’essere più incapace di mentire che io abbia mai conosciuto. E in questo stava la sua forza, nel portare sulla scena (o sullo schermo) la cronaca sputata dei suoi abissi, delle sue mancanze, dei crepacci di cui era disseminato il suo ghiacciaio di solitudine.

Mi sono convinto che la grandezza nel ruolo di Ligabue fu proprio la sua incapacità di recitarlo: egli era veramente Ligabue, lo era fino in fondo e nelle pieghe più inaudite. Verrà detto, con ogni probabilità, che Bucci fu schiavo di quel ruolo per la vita intera, e che la sua carriera non seppe replicarne gli allori. Temo sia la più epidermica delle analisi, per la semplicissima ragione che Ligabue non fu per lui un personaggio, bensì la più sincera (e drammatica) assenza di maschera. Non è un’occasione che possa ripresentarsi facilmente.

Tuttavia, ripeto, nella memoria di questo paese distratto resteranno gli occhi spauriti e immensi del pittore di Gualtieri: ne raccontò come nessuno l’alienazione, la disperazione, la fuga, ma il miracolo avvenne perché lui stesso era alienato, disperato e fuggiasco, e a unire i due era in fondo il patto di entrambi con l’arte, intesa come grido necessario, come alternativa al baratro. Quel baratro che entrambi, purtroppo, conoscevano a memoria.

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