Ogni lama che casca su un patibolo rappresenta un’illusione frustrata. Noi continuiamo ad alzarci, al mattino, con Carlo Ancelotti.
In queste settimane su Netflix sono disponibili cinque puntate di un documentario a mio avviso straordinario – The Devil Next Door. Davanti alla storia di John Demjanjuk – esemplare padre di famiglia e parte attiva della comunità ucraina impiantatasi a Cleveland, nello stato americano dell’Ohio, nei primi anni Sessanta e poi coinvolto in una serie di processi atti a appurare se fosse o meno lui l’Ivan il Terribile del lager nazista di Treblinka – dobbiamo fare lo sforzo di contenere il raccapriccio e puntare al cuore del racconto: dove è la realtà, dove è l’illusione e dove la verità? E come si posiziona, l’uomo, rispetto al triangolo disegnato da questi tre vertici? Noi, da amanti persi del dio pallone, siamo chiamati ad uno sforzo ulteriore, quello di vincere la scabrosità della materia e quella volgarità che sentiamo nell’accostare temi così gravi ad altri così apparentemente frivoli – la guerra ed il calcio – perché nel mezzo di tutte queste storie umane sta il senso profondissimo del gioco che, va ricordato, o è un tempio dell’esistenza o vale così poco da poter essere gettato via.
Il documentario mostra allo spettatore quanto non sembra bastare: non è sufficiente neppure un conflitto mondiale a sanare le contraddizioni e a riparare i tessuti lacerati; così che, mentre le storie gigantesche e atroci di quegli anni di conflitti rimangono su documenti e filmati nei quali permane la realtà, né tribunali, né periti, né carnefici né testimoni riescono con certezza ad circoscrivere la verità: può un mite emigrato che partecipa alle recite scolastiche dei figli essere anche un feroce affiliato delle SS?
Il calcio alla dicotomia reale-vero deve tutta la sua fortuna, tanto da renderlo il tema del nostro presente, così vasto eppure così ignorato. Se nelle aule di tribunale, nel corso dei decenni, non si riesce a trovare una intesa ragionevole tra realtà e verità, nel chiuso della vicenda calcistica di una squadra di calcio locale si pretende di avere, da giorni, settimane, mesi, forse da sempre, il colpevole. La persona da mettere al muro. No: l’idea specifica che una persona ha di una squadra. C’è ancora gente, a Napoli, convinta che se la squadra tornasse a giocare con il 4-3-3 i problemi si risolverebbero. E la superficialità, l’incapacità di percepire questo scollamento tra realtà e verità – peggio ancora, l’inabilità di capire dove, tra di esse, intervenga il terzo vertice fondamentale, ovvero l’illusione – fa quasi paura. Perché è il termometro del potere dissolutore di una comunità.
Il travaglio della squadra del Napoli – la cui entità, tutto considerato, è ancora da stabilirsi – non è figlio di un modulo. Non nasce da un evento specifico in uno spogliatoio. Forse neanche è il risultato di un fiume che, più scende a valle, più si scopre in piena. Il tormento dei colori azzurri, non da oggi ma probabilmente da sempre, è l’illusione. È la lucida volontà di ignorare quanto c’è di reale attorno. È la determinazione forte, a volte quasi violenta, nel far assurgere a dominatrice assoluta una verità che assolva tutti. L’altro ieri era il figlio dell’allenatore. Un mese fa era la scritta su una lavagna del figlio del presidente. Oggi sono le politiche societarie. Domani sarà l’indecisione dell’allenatore. Dopodomani ne verrà fuori una nuova perché a Napoli, culla della cultura classica che sul senso del paradosso e dell’ambiguità ha costruito addirittura un tempio sublime quanto il teatro greco, alle parole di Sofocle si sono sostituite, da molto tempo ormai, le sceneggiate di Merola. Quelle che gli intellettuali della nostra città si sono divertiti, negli anni, a far assurgere a disciplina nobile – perché gli intellettuali sono così, per combattere la noia e rimanere in pantofole di seta si inventano una favola al giorno.
Il male di questa squadra è non-conosciuto. Chi ve lo spiega è un illuso. Ed illusi, probabilmente, lo siamo tutti, alla ricerca disperata del busillis. Cosa resta, dunque, del reale? Il risultato, la classifica, che va letta senza l’ansia di scovarvi la verità rivelata. Non c’è, infatti, nulla di vero in una gara di pallone o nel termine di un girone. Rimangono il risultato ed il lavoro fatto per acquisirlo – il lavoro, l’esempio, lo sforzo. Ciò che l’allenatore va predicando da mesi, inascoltato: la sofferenza di ritrovarsi in un triangolo impossibile da svolgere e arduo da sopportare. Il modello di un uomo che si ritrova il gruppo che guida in disaccordo e va comunque in ritiro – perché è ciò che fanno gli uomini, se solo in questa città ce ne fossero ancora o ci fosse almeno chi di uomini, e non di ominicchi, ha fame. Tra questi tre vertici non complementari né compatibili, tra realtà verità ed illusione, è bene rimanere tra chi continua ad alzarsi la mattina con la forza cocciuta di provare di nuovo a sfangarla, di fare ciò che si può con ciò che si ha. Di lavorare.
La ghigliottina a Napoli ha sibilato nell’aria centinaia di volte. Forse migliaia. Ogni volta aveva la risposta finale in tasca. Il tempo che viviamo, non solo in città, pretende di tagliare il reale e renderlo vero a piacimento. Ogni lama che casca su un patibolo rappresenta un’illusione frustrata. Noi continuiamo ad alzarci, al mattino, con Carlo Ancelotti. Poche parole, gli abbracci che contano. Per noi l’esperienza conta ancora e continuerà a contare. E se la città li respinge, non è detto sia necessario rimanervi.