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Totti, Maldini: una bandiera come dirigente vuol dire stipendiare Dorian Gray

I fine carriera degli dei non ci piacciono. Un dirigente non dovrà occuparsi anche di amministrazione di un’azienda? Quando Ottavio Bianchi si fece dare una scrivania

Totti, Maldini: una bandiera come dirigente vuol dire stipendiare Dorian Gray

Maldini, Antognoni. Zanetti, Totti, Batistuta, Boban. E tra un po’ Buffon, direi. Perché appena vorrà chiudere la carriera, vedrete che Juve o nazionale (più la seconda) dovranno cercargli un impiego. Tutti grandi, grandissimi sui campi, e simboli di grandi club. Poi ciascuno smette, e allora eccolo dirigente. O candidato dirigente. E si indigna se l’offerta del club non è adeguata, non consona alla statura del campione che fu. Maldini pare sia stato fuori per qualche anno perché il Milan, malgrado qualche tentativo di coinvolgerlo, non pensava a lui come dirigente plenipotenziario. E tanti osservatori erano indignati quanto lui. “Come può il Milan non affidarsi a Maldini?”. Il Milan ha vinto le sue Champions senza alcun Maldini dirigente. Aveva il denaro spropositato di Berlusconi e aveva Galliani, imprenditore che si scoprì dirigente.

Totti divorzia dalla Roma perché non gratificato dal ruolo. Credevo che avesse insistito lui per un contratto da dirigente. Evidentemente l’hanno accontentato allora per quanto contava, evidentemente l’hanno poi usato quanto hanno ritenuto opportuno. Come ogni azienda fa coi propri dipendenti. Dopodiché puoi sentirti deluso e lasciare, o decidere che in fondo non è così male che ti paghino per non far nulla. Uno stipendio versato al passato che ti trascini dietro. Non l’ho mai amato, l’ho però ammirato smisuratamente. Straordinario dieci e meraviglioso nove, tecnica istintiva, potente ed elegante, riusciva a passare la palla prima di riceverla. Spiegatemi quali tra queste doti debbano farmelo considerare ora un grande direttore.

Ma sono bandiere, e dunque hanno esperienza, carisma… Di quale esperienza parliamo? Non da dirigenti, ovviamente, non ne hanno. E il carisma, continuo a credere che glielo attribuisca il tifo, con la gratitudine riservata a chi per anni ci ha regalato brividi.

Maradona mi aiuterà a spiegare quanto sono perplesso e perché. Per me aveva sempre ragione lui, prima ancora che conoscessi la disputa in cui era coinvolto. Nei suoi confronti, ho solo devozione, nessuna neutralità e nessuna voglia di ragionare. Eppure, di un Maradona dirigente non ho mai avvertito il bisogno. Non perché non lo ritenessi capace, ma perché non vedevo alcun motivo per ritenerlo capace. Se sono un club che ha, o ha avuto un Maradona in campo, voglio un fuoriclasse anche alle scrivanie. E il mio candidato non è lui. Fossi juventino non sarebbe Buffon, fossi interista non sarebbe Zanetti. Per capirci, mi esaltai quando il Napoli ingaggiò Italo Allodi, ritenuto ai suoi tempi il dirigente più abile e autorevole del calcio italiano e forse europeo. Non sapevo precisamente quanto e perché fosse bravo, semplicemente lo associavo alle vittorie che aveva conquistato con Inter e Juve. Ecco, avere lui mi faceva finalmente sentire all’altezza di Inter o Juve.

Come tanti con cui ho condiviso stadio e passioni, avrei voluto un Maradona sempre in campo, sempre col Napoli. Sempre per sempre. Non va giù che quella fase debba chiudersi, così vuoi un seguito, vuoi la sua immortalità. Perciò prolunghiamogli la vita, imbalsamiamolo, facciamolo dirigente. Totti per i romanisti, Maldini per i milanisti, Batistuta per i fiorentini. È come stipendiare Dorian Gray. I fine carriera degli dei non ci piacciono. Sono una mostruosità, un assurdo indigeribile. Restate eterni, per favore.

Un dirigente non dovrà occuparsi anche di amministrazione di un’azienda? Dovrà conoscere bilanci, programmazione, transazioni finanziarie, controllo di gestione. Ma assumiamo che si limiti alla responsabilità tecnica. Bene, il direttore tecnico Paolo Maldini cosa fa, e cosa sa fare? Un anno fa circolava una lettura dei fatti che non lasciava scampo. Il Milan torna ai grandi milanisti, quelli dei trionfi, perciò scansatevi tutti, adesso il Milan sa nuovamente come vincere. Fuori dalla Champions con Yonghong Li due anni fa, fuori dalla Champions con Fassone e Mirabelli un anno dopo, fuori dalla Champions con Leonardo e Maldini adesso.

Nel maggio del 1993 il Napoli conserva la serie A in affanno, grazie a una rimonta finale, in panchina c’è Bianchi, richiamato a campionato in corso. A Napoli aveva vinto uno scudetto, il primo della storia, adesso si rifaceva vivo come un Cincinnato. A missione compiuta, il suo potere diventa vertiginosamente alto, forse più che al tempo del campionato vinto. Non è un’estate semplice, il club è indebitato, scricchiola. Bianchi fa sapere che resterà, resterà al fianco del suo Napoli, ma attenzione, non ha più voglia di far l’allenatore. Se mi volete – e lo vogliono, non possono non volerlo – io ora sono un direttore generale. Va bene, allora direttore. Fa sistemare la scrivania in un ampio ufficio a Soccavo, lo arreda in modo sobrio, com’è lui, fa incorniciare e inchiodare alla parete, un metro più su della sua poltrona, un poster con la frase: “Se un giorno dovessi fare un trapianto di cervello, vorrei quello di un giornalista sportivo, perché so che non è mai stato usato”.

Non era simpatico, non era socievole, non era nemmeno un dirigente, pur seduto a una scrivania. Ma a Bianchi volevo bene. Da quel 1993 prese a usare anche gli occhiali, non so se per assumere una faccia da direttore o per la presbiopia dei cinquant’anni. Il dirigente Bianchi aveva acquisito crediti sportivi, ma da amministrativo non aveva studiato. E si vedeva. Per ognuno dei settori su cui estese le sue responsabilità, ingaggiò un professionista autorevole che gestiva di fatto ogni questione. Economisti, commercialisti, avvocati. In gran parte docenti universitari autorevolissimi e legittimamente costosi, luminari che da una parte indicavano al Napoli come salvarsi dalla crisi profonda dei conti, dall’altra presentavano parcelle che su quegli stessi conti pesavano come si fosse acquistato Romario. Ma allora perché proprio a lui, a Cincinnato, avevano fatto un contratto da dirigente?

Il club a volte è costretto a servirsene, subisce la spinta popolare ancora viva del campione che lascia il calcio. Altre volte se ne avvantaggia, lo assume come parafulmine. Lasciate perdere Fantozzi, paga e presupposti sono troppo diversi. La bandiera col ruolo del parafulmine a Napoli l’abbiamo avuta. Antonio Juliano. Godeva di merce preziosa, rispetto e credito, che Ferlaino comprava quando ne aveva bisogno. Fino al giorno in cui il parafulmine non serviva più, e allora si andava da dirigenti di professione. Coi quali, sia chiaro, sarai competitivo sempre in proporzione al budget.

Non ho nulla contro i simboli, nulla contro le bandiere, nulla contro i campioni del campo che un giorno si sentono manager. Ci sono certamente esempi che hanno funzionato. Per me il problema è l’idea fissa che tanti manifestano, sostenere che il loro sia un diritto assoluto, grande e prepotente quanto la loro classe in campo. I miei campioni preferisco conservarli nella memoria, idealizzarli, preferisco raccontare fandonie pazzesche a chi non li ha visti. Fandonie di cui sono io stesso tenacemente convinto. Krol? Nessuno l’ha mai saltato, e mai ha sbagliato un lancio. Bagni? Mai perso un pallone. Criscimanni? Qui è più dura, ma qualcosa riuscirei a tirar fuori. Aveva ragione quel poster, il mio cervello è come nuovo, usato pochissimo. Ottavio Bianchi non ne avrà bisogno, lo consideri comunque a sua disposizione.

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