ilNapolista

Kappa o Adidas: un Napoli internazionale si vede anche dagli sponsor

Il club di De Laurentiis incassa troppo poco dai suoi sponsor, è giunto il momento di fare il salto di qualità

Kappa o Adidas: un Napoli internazionale si vede anche dagli sponsor

Il campionato ormai giunto quasi al termine ci consente di fare qualche riflessione sull’andamento della stagione e sul momento del Napoli, sia sul piano eminentemente sportivo e tecnico, sia sotto il profilo più squisitamente progettuale.

Il Napoli quest’anno ha raggiunto il quindicesimo posto nel ranking UEFA: una onorificenza che, al netto dei soliti mugugni ribellisti, certifica quanto di buono la società abbia costruito in questi anni. Anni nei quali il Napoli, seppur in diverse sfumature, ha recitato un ruolo da protagonista nel calcio europeo ed italiano.

Inutile ribadire quanto questo non sia scontato: chi legge il Napolista  – e soprattutto chi lo critica ferocemente – conosce benissimo gli argomenti a sostegno di quella che, se solo riguardasse un altro club, parrebbe una ovvietà non meritevole di qualsiasi motivazione.

Il progetto Napoli

In realtà, il progetto SSC Napoli sta vivendo una fase particolare, caratterizzata dalla perdurante dialettica tra ciò che si è stato e ciò che dovrà essere; l’esigenza di percorrere il famoso ultimo step, che aleggia nei discorsi (forse anche impropriamente) sul Napoli dai tempi di Mazzarri, complice la rapidità con la quale il calcio dei club si sta muovendo verso una sempre più forte autonomia, appare oggettivamente improcrastinabile.

Il Napoli di De Laurentiis siede da quasi un decennio nell’èlite del calcio europeo, potendo sbandierare i grandi risultati sportivi ottenuti con Mazzarri, Benitez e Sarri come una green card ottenuta meritatamente.

Allo stesso modo, il Napoli però non riesce a scrollarsi di dosso la sensazione di essere comunque un parvenu del calcio che conta; questo, oggettivamente, si fonda su dati oggettivi legati al fatturato, al bacino di utenza (effettivo e non potenziale), al problema stadio, alla debolezza del sistema calcio Italia, alla collocazione geografica etc.

Questioni di non facile soluzione, alle quali la società ha comunque sempre dato l’impressione di voler ovviare, con scelte o posizioni più o meno chiare – e naturalmente legittimamente opinabili.

La crescita del brand

C’è un aspetto però che, al netto di qualche sporadico episodio mai espressione di una strategia organica, reclama un’attenzione maggiore: ci si riferisce, senza dubbio, a quella ‘macro-categoria’ definibile come crescita del brand.

Naturalmente, le questioni afferenti al fatturato della società e del calcio italiano hanno un peso decisivo; la vendita dei diritti televisivi, ad esempio, penalizza proprio società come il Napoli che, a fronte di proprietà non faraoniche ed introiti strutturali relativamente ridotti, si trovano di fronte ad un sensibile gap nei confronti dei competitors continentali, specialmente inglesi, che introitano il doppio o il triplo dalla cessione dei diritti tv. Soldi che servirebbero come il pane per implementare le strutture e magari progettare un nuovo stadio, e soprattutto che consentirebbero qualche licenza maggiore nell’individuazione di calciatori con ingaggi più onerosi.

La Premier League, che quest’anno ci ha offerto un campionato incerto fino all’ultima giornata, due finaliste di Champions e probabilmente due di Europa League, è un competitor attualmente inarrivabile: un prodotto che ha imparato a vendere l’idea di un calcio spettacolare, giocato a ritmi altissimi, con grandissimi campioni, alimentando costantemente le proprie risorse e reinvestendole costantemente. Ampliando un gap con il resto d’Europa (e con la povera Serie A) che pare attualmente incolmabile.

La crescita del brand, dicevamo.

Se il Napoli ha la giusta ambizione di sedersi al tavolo delle grandissime d’Europa, un dato, quello dei ricavi dagli sponsor, è assolutamente deludente

.

Questa tabella ci mostra i 15 top team europei, in base all’ultima classifica basata sul ranking Uefa, con i relativi contratti di sponsorizzazione tecnica e di main sponsorship sulla maglia di gioco, con accanto i dettagli dei singoli contratti.

Il Napoli è l’unica società senza la sponsorizzazione di uno dei giganti del settore: Adidas, NIKE, Puma ed il gruppo NB rappresentano i principali brand, hanno conquistato e mantenuto una posizione dominante nel mercato calcistico soppiantando le storiche firme degli anni novanta (DIADORA, Lotto, Umbro, reebok e pure Robe di Kappa).

Lo hanno fatto individuando le società emergenti e le grandi realtà del calcio europeo, garantendo loro ricchi e cospicui ricavi e, contemporaneamente, una visibilità mediatica e commerciale di primo livello: il vantaggio delle grandissimi multinazionali, infatti, si percepisce proprio nella distribuzione dei prodotti e del merchandising praticamente ovunque al mondo, che sfrutta tanto la capillarità dei monomarca, tanto i rapporti privilegiati con i grandi franchising à la JD Sports e FootLocker.

Escluse Roma e Siviglia, il Napoli è l’unica ad incassare meno di 10 milioni a stagione dal Kit Supplier. In un pezzo di qualche anno fa, il Napolista evidenziò le ragioni sottese alla scelta del Napoli di preferire un brand di minore grandezza ma con maggiori margini di decisione e scelta da parte del club, che partecipa da anni alla pianificazione della linea gara.

La possibilità Adidas

Adesso, però, con un Ancelotti in panchina ed una squadra con giocatori del calibro di Koulibaly, Allan e Insigne (sempre che rimanga), è francamente riduttivo immaginare un Napoli che non si apra alla partnership con un gigante come Adidas. In realtà, qualcosa si è già mosso: è innegabilmente strano che una società conceda il proprio sito internet come spazio per una pubblicità ad un marchio potenzialmente competitor del proprio official sponsor. È quanto accaduto con Adidas, divenuto sponsor di Lorenzo Insigne e poi di Hysaj, Verdi, Ospina e Younes, e del quale si vocifera come possibile nuovo fornitore per il Napoli già dall’anno prossimo.

Il gravissimo limite di Kappa è stata l’improvvisazione: le linee training degli anni passati, in maglina e piene zeppe di sponsor invadenti, erano oggettivamente quanto di più distante dal concetto di abbigliamento brandizzato di un club. A partire dall’anno scorso, invece, l’idea di rilanciare le bande verticali ed i kappini hanno reso la linea di abbigliamento senz’altro più appetibile, divenendo addirittura un cult (si pensi alla magnifica linea retrò spuntata qualche mese fa).

Ebbene, Kappa ed il Napoli hanno scelto di non pubblicizzare, se non con una banale immagine postata sul sito ufficiale, la nuova linea: mentre invece, l’omologa linea realizzata per il Betis, veniva addirittura anticipata da reportage dedicati sulle riviste italiane di settore.

Adidas invece, ne siamo certi, garantirebbe un netto salto di qualità sotto il profilo promozionale: lo farebbe sulla scorta di una fortissima riconoscibilità che calzerebbe a pennello con la brand identity del Napoli, sul cui sfondo azzurro si sposerebbero perfettamente le iconiche tre strisce, fatta di orgoglio per le tradizioni, integrazione fra culture e mix tra passato e futuro.

Con buona pace anche del presidente, che finalmente potrebbe godersi campagne d’immagine globali magari con la maglia azzurra di Koulibaly indossata da Childish Gambino o Snoop Dogg, od anche semplicemente acquistabile ad Honk-Hong come a Time Square.

Al netto di qualche fuga in avanti con la fantasia, ci sono i dati: la posizione con la quale il Napoli potrebbe contrattare con Adidas è con tutta evidenza diversa rispetto a quella del post 2015, quando ADL scelse di legarsi fino al 2020 con Kappa. Il Napoli è l’unica squadra italiana in Europa da 10 anni, domenica ha conquistato la quarta qualificazione Champions consecutiva ed è stabilmente la seconda forza del campionato italiano da anni.

Alcuni dei propri calciatori hanno un’immagine internazionale di tutto rispetto per una realtà di medio raggio come il Napoli: la presenza poi di Carletto in panchina sarebbe un attrattore naturale di attenzioni, non fosse altro per l’obbligo di indossare la tuta brandizzata nelle conferenze stampa pre-match.

In più, il Napoli ha dimostrato che, quando ci si mette, le cose le riesce a fare anche piuttosto bene: non è da sottovalutare il risultato della partnership con Amazon che ha garantito una visibilità internazionale amplissima, soprattutto se parametrata alla essenzialità minimal – è dir poco – del sito internet di Robe di Kappa, che non garantisce al Napoli nemmeno una propria vetrina riservata, limitandosi alla vendita dei prodotti in una modalità confusionaria che conferisce al tutto una confusione inaccettabile a questi livelli.

Strappare un accordo che, ad esempio, porti nelle casse del club una cifra intorno 16/18 milioni di euro all’anno, sarebbe oro colato. Ed oggettivamente, non irrealizzabile; è certo che il club abbia avviato i contatti con il colosso tedesco, come confermato dalla indiscrezione di Footy Headlines, così come è altrettanto rilevante il comunicato con il quale ADL ha smentito l’ipotesi ribadendo la vigenza del contratto con Kappa.

Inutile dire che la strada, però, sembra tracciata: la scelta della proprietà De Laurentiis, volta essenzialmente alla minore immobilizzazione possibile del capitale, alla liquidità ed alla essenzialità anche della struttura societaria, per rimanere ad alti livelli e continuare ad essere competitivi deve necessariamente accelerare sul piano della costruzione di un marchio appetibile e maggiormente redditizio.

Questo discorso vale naturalmente anche con la partnership di Arnone, che accompagna ADL dai tempi della serie C e che è rappresenta il sodalizio commerciale più longevo della storia della serie A.

Le radici, quasi da calcio degli anni 80, con il territorio ed i prodotti locali sono una piacevole eccezione in un calcio che si ciba di sponsor di società di betting e multinazionali fittizie: il pacchetto KIMBO, LETE, GAROFALO garantisce al Napoli 15 milioni, cifra accettabile destinata comunque ad essere ridiscussa.

Forse anche su questo aspetto, magari con un partner commerciale internazionale che prediliga la posizione di main sponsor in solitaria (un nome a caso Hankook), si potrebbe recuperare qualche altro milione, magari entrando in un circolo virtuoso dove visibilità-chiama-visibilità e sponsor-chiama-sponsor.

Come è accaduto con il Chelsea di Abramovich, che in dieci anni è riuscito a passare da ricavi medi in linea con i risultati sportivi dei primi anni duemila, a contratti di sponsor (tecnico e main), da vertice del calcio europeo.

Siamo nelle mani di Serena Salvione e di Aurelio De Laurentiis; e forse, anche di Mino Raiola, il neo-procuratore di Insigne, che ha appena curato il nuovo contratto di sponsorizzazione di Gigio Donnarumma proprio con Adidas, e che potrebbe essere l’intermediario perfetto per avvicinare per avvicinare ADL all’azienda di Herzogenaurach.

Staremo a vedere.

ilnapolista © riproduzione riservata