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La Supercoppa dell’ipocrisia: in Arabia Saudita le donne solo in alcuni settori dello stadio

Un mese fa, campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. Tra tredici giorni, la Supercoppa (per soldi) in un paese che non garantisce alle donne i diritti fondamentali.

La Supercoppa dell’ipocrisia: in Arabia Saudita le donne solo in alcuni settori dello stadio

Juventus-Milan

Juventus-Milan, Supercoppa Italiana da giocare in Arabia Saudita. Oggi la Gazzetta dello Sport racconta la storia di questa partita in maniera completa, così com’è: da una parte i 50mila biglietti già venduti, dall’altra il piccolo dettaglio dei diritti fondamentali degli individui non proprio rispettati. Anzi, siamo precisi: i diritti fondamentali delle donne.

Ricostruiamo: il 16 gennaio si sfidano bianconeri e rossoneri per il trofeo che chiude idealmente la scorsa stagione. Si gioca a Gedda, città dell’Arabia Saudita. Uno dei paesi “meno liberi” del mondo, in cui il rispetto dei diritti fondamentali degli individui è tra i più incerti. Non è solo la questione religiosa declinata al femminile, basta rileggere la vicenda del giornalista Khashoggi.

C’è anche questo nel pezzo della Gazzetta, firmato da Marco Iaria: «L’omicidio di stato del cronista ha rimesso il regime saudita nel mirino della comunità internazionale dopo un allentamento dovuto ad alcuni accenni riformisti del principe Mohammed Bin
Salman. Dall’anno scorso, in Arabia Saudita, le donne possono finalmente guidare l’auto e assistere alle partite di calcio dal vivo ma continuano ad avere forti limitazioni, in base ai dettami del wahhabismo, il ramo più oscurantista dell’Islam. Per esempio, non possono uscire di casa se non accompagnate da un familiare maschio e allo stadio sono obbligate a sedere nei settori riservati alle famiglie, in una separazione di genere che suona inconcepibile per le democrazie occidentali».

Il comunicato della Lega

Bene, anzi male. No, diciamo pure malissimo. Per un motivo semplice: la Lega Serie A ha pubblicato un comunicato in cui spiega come accedere allo stadio di Gedda. All’interno di questa nota ufficiale, c’è scritto che le donne non saranno ammesse che in alcuni settori dello stadio. 

Insomma, per dirla in breve: noi ci siamo adattati alla cultura retrograda di un paese ripiegato su leggi etiche e morali non condivisibili. E l’abbiamo fatto per soldi, come spiega ancora la Gazzetta: «A novembre, quando era montata l’indignazione mondiale per il caso Khashoggi, il presidente della Lega Gaetano Miccichè si era consultato con l’ambasciatore italiano a Riad Luca Ferrari, il quale lo aveva invitato ad andare avanti,
anche perché il nostro governo non ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita né le nostre aziende più rappresentative hanno cancellato o rivisto i contratti commerciali».

«Il calcio si è adeguato, ovviamente anche per ragioni di convenienza. La Supercoppa italiana è stata spesso itinerante, con le ultime edizioni ospitate dalla Cina e dal Qatar (in precedenza da Stati Uniti e Libia), ma nessuno aveva mai offerto i compensi garantiti dall’Arabia Saudita: 7,5 milioni a partita, nell’ambito di un accordo che prevede la disputa di tre edizioni in cinque anni (in Cina non si andava oltre i 3,3 milioni a edizione)».

Il rosso in faccia

Il tema più importante, però, non è neanche questo. C’è una parte del racconto che è ancora più paradossale: il 23 ed il 24 novembre scorsi la Serie A è stata teatro di un’iniziativa per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della violenza sulle donne. Ricorderete i segni rossi sulle facce dei calciatori, anche nel weekend del 22 aprile 2018 (Juventus-Napoli 0-1) i giocatori del massimo campionato si presentarono in campo con una striscia di colore sulle guance.

Ecco, è un problema di ipocrisia. Mentre il nostro calcio e i suoi simboli si nutrono della retorica sulla solidarietà, non ci sono scrupoli ad accettare i petrodollari di un paese in cui non c’è integrazione per le donne. Le immagini della partita del 16 gennaio stoneranno con il messaggio veicolato appena un mese fa. Donne sedute solo vicino ad altre donne; tutte vestite con abiti locali (l’abaya, che copre praticamente tutto il corpo e il volto); gli uomini, da soli, negli altri settori. Ecco, comprendiamo anche le ragioni del business, ma ci sembra che l’autogol etico e soprattutto di incoerenza mediatica e di immagine sia molto più impattante. Nonostante i 50mila biglietti già venduti a tredici giorni dall’evento.

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