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L’amore per il Napoli è stato un contagio, tra parolacce e sapore di Borghetti

Le partite con mio padre che mi prendeva in braccio, i suoi amici che urlavano frasi irripetibili, il sonno nel viaggio di ritorno sul sedile posteriore della Giulietta.

L’amore per il Napoli è stato un contagio, tra parolacce e sapore di Borghetti
Photo Matteo Ciambelli

Parolacce stimatissime

Se dovessi raccontare come è nato il mio amore per il Napoli non potrei farlo circoscrivendolo a un colpo di un fulmine in data X posto Y. D’altra parte neanche con mia moglie è stato così. Ho sempre guardato con diffidenza quelli che dicono di essersi amati al primo sguardo. Mi ha sempre dato l’idea di qualcosa che sfuggisse al loro controllo. E quindi ripetibile con un altro soggetto.
Con mia moglie ci siamo conosciuti, uscivamo con una compagnia di amici, poi qualche serata solo io e lei, le battute, la confidenza sempre maggiore, poi gli approcci. Eravamo simpatici l’uno verso l’altra, poi cari amici, poi altro.

Con il Napoli è stato così. Sono del 1978 quindi ho pochi ricordi dell’epoca maradoniana. Ma qualcuno sì, non tanto riferiti alle giocate di D10S ma a tutto quello che c’era prima.

Mio papà mi portava con lui ed alcuni suoi amici; tutti stimati professionisti che, varcato il cancello e seduti sulle gradinate in cemento dimenticavano blasone, titoli di studio e qualifiche professionali mentre partivano “strunz”, “chitebbiv” e “mall’anemaechita” come se non ci fosse un domani. Credo di avere imparato lì le prime parolacce: nel mio caso le “cattive compagnie” erano gli stimatissimi amici di papà.

Nella Giulietta di papà

Ero piccolo, i ricordi sono confusi ma le emozioni forti soprattutto legati all’idea di fare qualcosa “da grande”. Papà che mi prendeva in braccio quando non vedevo, il sorso “piccolissimo” di caffè Borghetti che mi era concesso, l’ abbassarmi” alla sbarra perché chi era sotto un tot di centimetri non pagava. E l’esplosione del verde finita la rampa di scale che portava alla tribuna. E le urla di gioia, l’abbracciarsi tutti quanti, e il “accort’ o’ piccirill!” quando nell’euforia rischiavo magari di cadere dal “gradone”. Per me era una festa. Era LA festa.

Poi il ritorno a casa soddisfatto, che avessimo vinto o perso, mentre nella mia testa le urla si mescolavano con il verde del prato ed il sapore del caffè Borghetti in bocca: una pozione che mi faceva sprofondare in un sonno profondo, nel sedile posteriore della Giulietta di papà. Con il sorriso. Lo ammetto, non ho amato il Napoli “a prima vista”, sono stato contagiato; me ne sono innamorato per contagio di quelli che l’amavano già. E non ho più smesso da allora.

Sono originario di Nola, ora vivo a Firenze.

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