In Sala 2 sorge il dubbio sulle capacità cinematografiche di Steven Spielberg: o lui non sa più girare o qualcosa non va nella proiezione
Un problema di Spielberg o del cinema?
Esci per vedere in santa pace un film approfittando delle sale vuote grazie alla tv che fa il pieno con Sanremo e torni a casa con il dubbio che uno dei più grandi registi della storia del cinema sia ormai diventato un cane, tecnicamente parlando.
Cose che succedono a Napoli e non per colpa di fiction o narrazioni sbagliate.
Zona Chiaia, serata fredda e piovosa. Strade deserte e negozi chiusi. L’audience record del Festival in tv è la migliore garanzia per godersi la pellicola in una sala vuota e quindi senza brusii fastidiosi, commenti del piffero e sgranocchiate irritanti.
Condizioni ideali per assistere con incolpevole ritardo a “The Post”, l’ultima opera di Steven Spielberg.
Da sette giorni, a causa di un letale attacco influenzale, ero costretto a far scena muta in ogni discussione sul film candidato all’Oscar. Masticavo amaro nella mia silente ignoranza sul “significato profondo” che lo stesso proiettava sulle realtà locali di Napoli e della Campania, assillate da politici e amministratori che litigano con i giornalisti, da giornali che litigano con altri giornali, e giornalisti che litigano, come al solito, tra di loro. Come se non bastassero le baby-gang, il traffico, la pioggia e Sanremo che arriva tutti gli anni come l’influenza.
Nixon e il giornalismo americano
E poi questo è l’ottavo film incentrato sulla figura o sulle opere di Richard Nixon, il presidente forse più odiato dagli americani ma sicuramente più amato da Hollywood. Spielberg ha confezionato un ottimo prequel di “Tutti gli uomini del Presidente” (1976), il capolavoro che ancor prima della Storia ufficiale ha consegnato al Mito il giornalismo americano – con le facce belle ed affascinanti di Redford e Hoffman – e relegato all’inferno il presidente che, tra l’altro, nominò un segretario di Stato che vinse il Premio Nobel per la Pace.
“The Post finisce proprio dove comincia il film di Alan J. Pakula. Dalla effrazione nella sede del Partito Democratico, quello statunitense, nel Palazzo dell’Acqua a Washington D.C. Prima dello storico finale c’è però la frase che ogni giornalista e ogni democratico che si rispetti ha postato sui social oppure ha inserito in un articolo. Una specie di slogan che in questi giorni ha rappresentato un po’ il vessillo sotto il quale unirsi e respingere ogni attacco alla libertà d’espressione e d’informazione: “La Stampa serve chi è governato e non chi governa”.
“La Qualità conduce al Profitto”
La citazione è tratta dalla sentenza della Corte Suprema americana sull’azione legale promossa, all’inizio degli anni Settanta, da Nixon contro il Washington Post e il New York Post. Il buon Dick cominciava in quel momento una sua personale guerra – quella del Vietnam l’avevano iniziata presidenti molto più glorificati di Lui – contro la Stampa. Un conflitto che l’avrebbe poi condotto nella palude del Watergate e alle dimissioni con ignominia.
Con questo film Spielberg, regista che fa della Storia la massima fonte d’ispirazione, “consiglia” ai giornalisti che la conoscenza della metodologia della ricerca storica, forse non è indispensabile, ma aiuta per il corretto esercizio della professione. Così come aiuta il corretto utilizzo dei telefoni (sempre sotto controllo), oggi come negli anni Settanta.
Eppure al di là di questi splendidi ideali e principi, a molti non sarà sfuggito che alla base della storia, almeno come l’ha filmata Spielberg, c’è un sano pragmatismo tipico del capitalismo a stelle e strisce.
Il filo conduttore del film è rappresentato dall’esaltazione della qualità, unica garanzia per un’azienda che voglia realizzare profitti. Il giornale deve essere quotato in borsa e quindi, per essere appetibile dal mercato, deve dare buoni risultati e mostrare ottime potenzialità di crescita. Seguendo questo obiettivo, il direttore Ben Bradlee (Tom Hanks) e l’editrice Kay Graham (Meryl Streep), cercano bravi giornalisti, da pagare profumatamente, in grado di dare al giornale una autorevolezza internazionale.
“La Qualità conduce al Profitto”.
L’effetto ghigliottina
Non è una sentenza della Corte Suprema né un emendamento della Costituzione americana, ma è il fulcro di tutta la storia di “The Post”. E la cosa vale tanto per il Washington Post quanto per il Metropolitan di Napoli.
O almeno dovrebbe funzionare così. Sì perché nella nostra città è molto facile passare dai massimi sistemi all’imprecazione, di fronte all’approssimazione e alla sistematica assenza di qualità che ci affligge nel vivere la condizione del consumatore. Succede quando ti accorgi che una normale serata che dedichi al godimento di un film si trasforma in una continua evocazione del periodo rivoluzionario del Terrore, tempi in cui Robespierre e Saint Just tagliavano la testa per un niente.
L’effetto ghigliottina l’altra sera durante la visione di “The post” è parso evidente anche agli spettatori meno scafati nelle tecniche di ripresa o di regìa. Una buona parte delle inquadrature di Hanks sono prive di testa, quasi sempre mentre dialoga con la Streep. Delle due l’una: o Spielberg è diventato un regista cane oppure la sala 2 del Martos Metropolitan di Chiaia ha uno schermo troppo vicino al proiettore. Si ottiene così un fastidioso effetto di errore nelle proporzioni dell’immagine, forse dovuto ad una pessima o sbagliata regolazione del proiettore rispetto allo schermo e all’ambiente di proiezione.
“La Qualità conduce al Profitto”. E la cosa vale tanto per il Washington Post quanto per il Metropolitan di Napoli. Ma i 7,50 euro pagati per il biglietto in uno dei più prestigiosi cinema della città rappresentano solo profitto raggiunto con pessima qualità.