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“Essere Gigione”, un documentario per capire la provincia italiana

Intervista al regista Vestoso: «È un fenomeno culturale, riempie le piazze di tutt’Italia. Studia la scaletta nei dettagli. La provincia non è la periferia, non la racconta nessuno»

“Essere Gigione”, un documentario per capire la provincia italiana

Settant’anni

Il re dei palcoscenici di piazza si chiama Luigi Ciaravola. Settant’anni, da Boscoreale, paesino del vesuviano. La descrizione a molti non sarà sufficiente per ricordarne il volto. Eppure, chiunque l’avrà visto almeno una volta in foto con l’immancabile cappellino e in una posa un po’ alla zio Sam o l’avrà incrociato facendo zapping sulle tv locali. Oppure, ancora, avrà ascoltato il suo cavallo di battaglia, “La campagnola”. Esatto. Luigi Ciaravola è il nome vero di Gigione, idolo indiscusso della scena musicale di provincia da oltre trent’anni e perennemente in tour da più tempo ancora.

A quest’uomo che macina chilometri e live infiammando i cuori dei fan di ogni età è dedicato il documentario “Essere Gigione – L’incredibile storia di Luigi Ciaravola” di Valerio Vestoso, prodotto da Camillo Esposito di Capetown. Dal 18 gennaio sarà nei cinema della Campania. Dal 25 anche a Roma e Milano. Risalirà la penisola, un po’ come fa Gigione disseminando allegria tra feste di paese, sagre di ogni tipo, cerimonie e feste private con quel repertorio di canzoni dal motivetto orecchiabile capace di oscillare tra doppi sensi e gli omaggi a “Padre Pio” e “Papa Francesco”. Ovunque vada, il pienone è garantito.

Non è un’apologia del trash

“Il documentario non è “di” Gigione, ma “su” Gigione” puntualizza Vestoso, trent’anni, di Benevento, regista e sceneggiatore autodidatta con un bel bagaglio di esperienze tra cinema, tv, pubblicità e teatro. La precisazione è d’obbligo per iniziare a scardinare la cappa di pregiudizio calata sull’opera quando è stata annunciata. Opera che ha peraltro ottenuto il riconoscimento di interesse culturale e un finanziamento dal Mibact, facendo storcere il naso a qualcuno. Il documentario di Vestoso, però, non è un’apologia del trash. Si addentra nell’universo Gigione con taglio giornalistico e fa di lui una bussola per muoversi dentro il mondo della provincia stimolando più di una riflessione. “Gigione è un personaggio sopra le righe, assurdo, surreale – dice l’autore – chi non lo conosce addirittura stenta a credere che esista”.

Vestoso, quando ha capito che il personaggio Gigione andava raccontato?

“Quando l’ho visto per l’ennesima volta su una tv privata. Mi sono reso conto che il numero di date che scorreva sul banner sullo schermo era talmente vasto da rendere incredibile quel teorema che vorrebbe la musica live in Italia sul viale del tramonto in un certo senso. In realtà è così, ma questo per Gigione non vale”.

Quanto tempo fa accadeva questo?

“L’idea mi è venuta quattro anni fa. Ma la lavorazione non è iniziata subito perché scrissi a Gigione e per un anno non mi ha risposto. Non so perché, forse per una questione di fiducia. Alla fine, spronato dalla forte curiosità, l’ho incontrato alla fine di un concerto e lui mi ha promesso che avrebbe valutato il progetto. Fui subito molto chiaro con lui. Gli dissi che non avrebbe avuto potere produttivo né editoriale su nulla. Volevo girare qualcosa di indipendente, in maniera autonoma, altrimenti non avrebbe avuto senso. Non volevo lavorare su commissione, volevo fare qualcosa di molto più intimo che partisse da lui e raccontasse i vizi e le virtù di una determinata popolazione. Il lavoro è cominciato così, ho girato con lui non continuativamente per due anni. Poi c’è stata la post-produzione, durata almeno altri sei-sette mesi”.

Dove ha girato?

“Ovunque. Tanta Campania. Poi Lazio, Umbria, Marche, Molise, fino in Svizzera. I suoi live sono uguali tra loro, così ho cercato di trovare delle declinazioni diverse: dalla festa di piazza alla sagra, dal compleanno privato agli incontri con i fan. Poi c’è la famiglia”.

Insomma, c’è Gigione artista e Gigione privato.

“Sì. Anche il mondo dei suoi collaboratori: musicisti, autisti, fonici di palco. Un gruppo di persone sempre al suo fianco. Li considero intellettuali di strada, perché spesso se ne escono con citazioni assolutamente inaspettate sulla vita. Venerano Gigione sia perché traggono benefici di carattere economico da lui, viste le tante serate ogni anno, sia perché lo vedono come un maestro di vita, a cui devono molto”.

Gigione è un uomo di 70 anni.

“Ed è un aspetto che si nota nel documentario. Volevo che uscisse fuori anche il rapporto di un uomo di spettacolo con l’età e l’inevitabile limite che la vecchiaia può imporgli”.

I due figli lo seguono durante il tour?

“Spesso. Ma sia il figlio, Donatello, che la figlia, Menayt, sono un’appendice un po’ più passiva rispetto a Gigione. Sono entrambi consapevoli che nessuno riuscirà replicare quell’algoritmo di semplicità che lo tiene sulla cresta dell’onda da anni”.

Quanto durano i tour di Gigione?

“Tutto l’anno, non si ferma mai. Quando andò in tv a “Quelli che il calcio” a Milano, la sera stessa aveva una serata ad Avellino. Non fa molta differenza di carattere qualitativo delle performance o dei luoghi geografici dove va ad esibirsi. È abbastanza democratico in questo. Una democrazia dettata dal ritorno economico, è chiaro”.

Cosa l’ha colpita di più di quest’esperienza?

“La rapidità con cui la gente passa dal riso al pianto durante i suoi concerti. Gigione ha una freddezza nella costruzione della scaletta che fa in modo che qualsiasi persona che ne segue le gesta passi dal divertirsi in maniera spudorata, volgare anche, con i pezzi tipo “La campagnola” e due secondi dopo a piangere su canzoni a sfondo religioso. È sconvolgente perché ti rendi conto del potere che ha su queste persone. Un potere che a mio avviso potrebbe tradursi anche in qualcosa di politico o di religioso (ride, ndr). È una sorta di messia della provincia italiana”.

Rispetto a quello che si può immaginare dietro il fenomeno c’è molto studio, dunque.

“Secondo me Gigione è un ottimo imprenditore della musica. E questo lo porta ad essere certamente legato anche a una strategia. Che però mette il popolo al centro”.

C’è anche un lato segreto di Gigione che ha individuato e che viene fuori?

“No. Pensavo di trovare una persona con hobby, interessi. In realtà lui vuole soltanto mettere al centro dell’attenzione se stesso. Non ha altri interessi, non ha altre attitudini. Non ha hobby, non ha riferimenti. Zero”.

Solo la musica e i live?

“Solo se stesso, stop. Raccontava la figlia che da piccola non ha mai avuto la possibilità di fare vacanze estive perché lui investiva tutto il tempo a organizzare il tour”.

Il documentario racconta Gigione e anche la provincia. Cosa ha scoperto di questo mondo?

“Ho scoperto che c’è una netta differenza e, molti ancora non l’hanno capita, tra periferia e provincia. La prima è molto raccontata. Dal cinema, dalla politica, da tutti quelli che hanno interesse che la si racconti. La provincia è tutt’altro. È lontanissima dai macroproblemi. Ha bisogno di una felicità imminente. Che i discorsi politici o gli intellettuali non riescono a fornire a persone che non sono sintonizzati su quella lunghezza d’onda. In questo senso Gigione ha trovato un vuoto. Un vuoto di rappresentanza e un vuoto culturale, nell’accezione più ampia del termine. E ci si è piazzato. Si è divaricato all’interno di questo vuoto con tutte la sua potenzialità e ha sviluppato un talento che un talento non è, ma semplicemente è uscito fuori come tale perché non aveva altri competitor”.

Il documentario è stato riconosciuto di interesse culturale dal Mibact.

“Il Mibact in questo progetto più che Gigione ha visto un pretesto per raccontare tutto ciò che lo circonda. Il mondo musicale della provincia e la popolazione. Gente che veramente venera il sacro quanto il profano in maniera molto disinvolta. Non c’era probabilmente nessun altra persona che potesse esplicitare il concetto come Gigione. Sono contento che sia stato colto tutto questo, perché molte volte dell’istituzione si ha un’immagine diversa. Probabilmente abbiamo trovato in commissione delle persone che hanno saputo leggere nel teaser di presentazione e nel soggetto del documentario la volontà che c’era dietro. Sono contento, al di là di tutte le polemiche”.

Intende le polemiche relative a questo riconoscimento?

“Assolutamente sì. L’Italia vive di queste cose. Però dobbiamo un attimo capire qual è la linea da seguire. Da una parte ci indispettiamo perché l’istituzione non segue i progetti indipendenti dei trentenni, dall’altro quando decide di sposarli, andiamo a criticarla. Probabilmente c’è semplicemente il pregiudizio, un altro tema che affronta questo documentario. Ho visto persone entrare nelle salette adibite per la proiezioni private che stiamo facendo in anteprima in questi giorni con un’idea del documentario e uscirne con un’altra. Diversa. Per me è una vittoria”.

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