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Non trasformiamo la vicenda baby gang in una sceneggiata

Quell’abbraccio davanti a telecamere e taccuini è il punto più basso di questa emergenza che non è certo nuova ma che non si risolve con il perdono. Vanno puniti i genitori

Non trasformiamo la vicenda baby gang in una sceneggiata
Rumble fish, Rusty il selvaggio. Gomorra ancora non esisteva

Rusty il selvaggio

La questione l’aveva già resa immortale il genio di Francis Ford Coppola quando un po’ di anni fa generò “Rumble fish” (1983). Il film, indegnamente tradotto in italiano con il titolo di “Rusty il selvaggio”, era imperniato come una precedente pellicola sulle baby-gang. Una storia di amore e morte in bianco e nero (a colori solo i pesci dell’acquario e la musica di Stewart Copeland), dove un esordiente Mickey Rourke e la bellissima Diane Lane prestano facce e anima a quella periferia in cui violenza e coltelli sono indispensabili per modellare lo spazio vitale. Gomorra non era stato scritto né fictionato (ma si può scrivere?) ed il regista italoamericano, senza essere accusato di fomentare la delinquenza, aveva già “sceneggiato” i tormenti della gioventù bruciata metropolitana.

Ha cominciato Minniti

A Napoli – mi perdonino coloro che mi considerano uno sputtanatore professionista della città – le tragedie sociali riusciamo a trasformarle in sceneggiate, da non confondere con gli sceneggiati che furono archetipi raffinati delle attuali fiction. Le baby-gang ed il loro carico di dramma sociale non fanno eccezione alla regola.

Ha cominciato il ministro degli Interni Minniti che, forse complice l’atmosfera armoniosa che impregna la città, ha messo da parte quel pragmatismo che pure ha prodotto buoni risultati nella sua azione di governo e si è fatto fulminare da un attacco di idealismo romantico, tipico dei vecchi comunisti nostalgici. Il ministro ha annunciato durante una conferenza stampa in Prefettura che le bande di giovani delinquenti vanno “affrontate” con i maestri di strada. Un po’ come se avesse tentato di regolare il traffico dei clandestini con i vigili urbani che dovrebbero controllare la movida partenopea.

Il cardinale Sepe rispolvera la pastorale di dieci anni fa

Di fronte alle granitiche incertezze dello Stato, il cardinale Sepe ha rispolverato una pastorale vecchia di dieci anni e ha rimesso i cestini sugli altari allo scopo di raccogliere i coltelli dei cattivi ragazzi. Cestini che puzzano di riciclo, e non perché la plastica ha sostituito l’intreccio dei vimini, ma perché analoga iniziativa fu battezzata dallo stesso arcivescovo ai tempi della Iervolino sindaco, allorché un ragazzo fu assassinato a coltellate da coetanei.

Allora, in mancanza di un Saviano con cui prendersela, la colpa fu data ai giornalai (non è un errore di battuta, mi riferisco agli edicolanti e non ai giornalisti) che vendevano coltelli a prezzi stracciati. E nelle chiese dell’arcidiocesi, laddove di solito c’è la culla di Nostro Signore, si posizionò il cesto del pentimento. Le cronache omisero di conteggiare il numero dei coltelli lasciati lì come se fossero degli ex voto e quindi non si può dare alcun valore statistico all’iniziativa. Aspettiamo gli esiti matematici di questa ultima benedetta misura per arginare l’uso di armi da taglio.

Abbracciame

In attesa che i vertici spirituali della città prendano atto che nell’ultimo decennio il gregge di pecore si è ormai ridotto di numero per effetto dell’aumento sconsiderato dei lupi, i carabinieri hanno pensato bene di rubare la scena a Stato e Chiesa con un colpo in stile lacrime napulitane.

“Abbracciame” canta Andrea Sannino in una hit neomelodica e “abbracciame” chiede il carabiniere al ragazzo davanti a telecamere e taccuini. La sceneggiata del perdono mandata in onda come momento clou della cosiddetta emergenza baby-gang, forse rappresenta uno dei punti più bassi per chi è nato a Napoli e sbarca il lunario grazie all’esercizio della professione giornalistica.

I genitori

E mentre sui media va in onda lo show che autoalimenta il dibattito, resta la certezza, nota a chiunque sia nato e abbia vissuto l’adolescenza in quartieri periferici, che le bande minorili fanno parte della realtà quotidiana. In certi quartieri, far parte di un gruppo più o meno violento, è l’unica assicurazione per superare indenni i pericoli dell’età dell’innocenza. Nelle stessa scuola dell’obbligo la regola è: mai farsi beccare da soli dai gruppi rivali. Rispetto al passato più o meno recente, l’unica variante è che oggi le baby-gang finiscono sui giornali perché hanno oltrepassato il confine invisibile che una volta separava la periferia dal centro di Napoli esportando nei salotti la violenza dei cortili.

In attesa di affrontare la storica questione con adeguate misure sociali, al momento l’unica seria strategia, ci perdonino ministri, cardinali e carabinieri, è: reprimere, reprimere ed ancora reprimere.

Magari colpendo anche i genitori di questi potenziali assassini perché rappresentano certamente un aspetto fondamentale del problema.

La storia che raccontava mia madre

La mia povera madre mi raccontava sempre una storia. Più che una fake news, credo si tratti di una leggenda con una base di vero. Il “fatto” è questo. Su un patibolo c’era un ragazzo in attesa di essere giustiziato per i gravi delitti che aveva commesso. Come ultimo desiderio il condannato chiese ed ottenne di abbracciare la madre. Durante l’incontro, le lacrime e i sospiri della donna che stringe al petto il figlio per l’ultima volta, si trasformano in un grido di dolore raccapricciante. Il ragazzo, con un morso, aveva staccato buona parte del labbro e della lingua alla propria madre. Sul patibolo insanguinato ancor prima dell’esecuzione, di fronte alla meraviglia e al raccapriccio dello stesso boia, il ragazzo spiegò il gesto con queste parole: “Se mia madre m’avesse chiesto spiegazioni su come mi procuravo quei soldi che mi riempivano le tasche fin da bambino, oggi, forse, non saremmo qui”.

Forse non sempre un abbraccio può portare al perdono.

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