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La liquidazione definitiva del Banco di Napoli

L’istituto, di fatto, non esisteva più da tempo. I ricordi di un cronista che per un breve periodo ha anche lavorato al Banco

La liquidazione definitiva del Banco di Napoli
La sostanza delle cose non è cambiata, il Banco di Napoli aveva già deposto lo scettro – pagando oltre misura gli errori e la megalomania del passato – cedendolo a Torino, poi a Milano e infine a Milano e a Torino insieme e coalizzate, ma nonostante l’evidenza la giornata di ieri è stata ugualmente luttuosa. Nell’immaginario napoletano il Banco, anzi ‘o banco ‘e Napule, è rimasto un punto all’orizzonte, spesso irraggiungibile, ma so capace di avvicinarsi a chi chiedeva il suo aiuto. E questo a vantaggio dei piccoli risparmiatori, ma, purtroppo, anche dei grandi brasseurs d’affaires che hanno messo in piedi catene speculative, cementate all’interno, che si sono spezzate solo quando l’Istituto che un tempo stampava moneta al pari della Banca d’Italia, è stato per la prima volta azzerato.
Una seconda volta è successo negli Anni Novanta. Ora siamo alla soluzione finale, scontata quando si vuole, ma pur sempre dolorosa e profondamente rappresentativa della crisi della città. Che, ormai, conta quanto il due a briscola. Da ieri, tra l’altro, la storia è senza ritorno: la perdita di autonomia, nel gelido linguaggio delle banche, equivale ad una liquidazione definitiva anche se caritatevole: ti lasciamo in vita ma ti svuotiamo il corpo: via l’anima, restano le strutture che, nonostante tutto, sono ancora in qualche modo poderose grazie anche ad una assennata gestione messa in atto negli ultimi anni: un miliardo di euro di capitale sociale – non è una cifra da guinness ma è pur sempre qualcosa, due milioni di clienti e il vessillo ancora saldamente in quattro regioni dell’osso: Campania, Calabria, Puglia e Basilicata.
Un’ultima notazione, di carattere personale. Il cronista ha  avuto la ventura di vivere una breve esperienza professionale con il Banco di Napoli. Accadde più di cinque lustri addietro quando accettò di dirigere l’area della comunicazione dell’Istituto attratto dalla prospettiva di organizzare una pubblicazione a prevalente indirizzo economico ma con una o più sezioni dedicate alla vita interna della  banca. Con l’evidente obiettivo di dare una spallata salutare alla vecchia e onnipresente impalcatura. Fu una illusione; nella realtà furono sufficienti pochi mesi per convincermi che il giornale non sarebbe mai stato pubblicato perché non gradito all’establishment, che non gradiva “fastidi” di ogni genere, e qualche altro mese per prendere l’unica decisione accettabile: le dimissioni.
Cosa resta al cronista del periodo trascorso al Banco? Poco o niente, o, forse, solo i giorni – tanti – impiegati per convincere chi decideva che la macchina di servizio assegnata al titolare della funzione non era desiderata. Anzi veniva rifiutata. Bastava la “600” sgangherata capace di fare miracoli nel traffico cittadino. È un episodio insignificante, ne siamo consapevoli, ma cinque lustri dopo aiuta a capire perché all’ex glorioso Banco utilizzato dal grande Armando Gil per una sua celebre canzonetta – «pe’ vuie ce vo ‘o Banco ‘e Napule carissima signora» – è stata tolta ogni autonomia decisionale.
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