ilNapolista

Si può amare Marek Hamsik e sperare che vada via

Non è contraddittorio amare un capitano onesto e senza fuoco. A mia figlia, ho parlato di lui. E ho scritto questo articolo indossando la sua numero 17

Si può amare Marek Hamsik e sperare che vada via

Ti scrivo indossando la diciassette

Caro Capitano,

Ti scrivo indossando la terza maglia stagionale, la nera – splendida – che ho scelto col tuo numero. Non sono un amante delle bandiere, rarissimamente mi hanno conquistato le storie di costante fedeltà. Ma nel mio armadio, dove non c’è spazio per casacche azzurre numero dieci – la passione brucia e diventa polvere, come sanno gli uomini di mare, ma ignorano gli intellettuali passeggianti di lungomare – trova porto sicuro la numero diciassette.

Mi ricordo di te a Wolfsburg

La tua fascia è quella che più di ogni altra è stata maschera dei nostri luoghi e i nostri tempi. Insicura, pragmatica, disciplinata. Ti ho visto sempre impaurito ma mai del tutto arreso al timore. Molti ritengono questo il tuo migliore anno. Per come ti vedo io, ti hanno capito poco. Tu sei uno stanziale che trova il ritmo nella routine, come fanno gli slovacchi, meno brillanti e sofisticati dei cugini boemi ma più selvaggi. Per conoscerti devono venirti a scovare, devono piantarti un pugnale nel cuore e costringerti all’angolo. Mi ricordo a Wolfsburg, ti seguivo con lo sguardo. Le gambe quasi ti tremarono sotto i riflettori, dove ti aveva gettato un tecnico che non amasti molto. Venisti fuori come sei, tenace ed inadeguato, vivo e senza risposte. Giocasti una gran partita. E non eri felice, lo intuivo dal viso. Perché la vita va così – per diventare ciò che sei capita spesso di essere infelici. E poiché, assieme alla casacca azzurra, vesti questa profonda contraddizione con silenziosa umanità, sei, per me, il capitano più grande.

Mia figlia era triste in camera

Ti scrivo, con la tua diciassette addosso, perché l’altro giorno mi è capitata una cosa inaspettata. Mia figlia, che frequenta la terza elementare in Germania, sedeva triste in camera sua, quasi in lacrime, perché il lunedì successivo sarebbe dovuta andare, come di consueto, a fare nuoto con la scuola. Mi sono avvicinato per chiederle cosa l’avesse scossa, e mi ha detto di essere preoccupata – credo avrebbe usato, se l’avesse conosciuto, il termine “frustrata” – perché non riusciva a completare le ventiquattro vasche in ventiquattro minuti, come richiesto dal maestro. Non ho chiesto la lunghezza di queste vasche, ma ventiquattro per me significa “molte”, comunque.

In Germania la scuola è molto competitiva

Ora, devi sapere che in Germania la scuola è molto piu competitiva che in Italia, almeno per come la ricordo io. Non che manchino anche qui i gruppi WhatsApp di genitori sfaccendati e disperati per la raccolta fondi del regalo da fare ai maestri per Natale. Ma meno, molto meno. Io firmo ogni mese test di matematica o lingue recanti il punteggio ottenuto da mia figlia comparato con quello medio della classe. I miei figli hanno sostenuto un esame di ammissione in una scuola elementare internazionale. Si boccia già dalla prima classe e si accede ai corsi di studi propedeutici all’università solo se il rendimento scolastico è al di sopra di una certa soglia, già da ora. Un tempo avrei bollato tutto questo come inutilmente contorto e snaturante per i bambini. Invece, pur mitigando le normali e sovrabbondanti rigidità tedesche attraverso il lato più mediterraneo della mia paternità, ho accettato il sistema teutonico e mi ci sono affidato, sebbene senza ciechi fideismi, perché il sistema inclusivo italiano – dove si mantiene una chance per tutti fino all’ultimo secondo illudendo i piccoli che non esistano sconfitte – mi aveva annoiato. Come i revival infiniti del Pibe de Oro.

Il peso di non essere nel gruppo di cima

Mia figlia, dunque, sentiva il peso di non essere nel gruppo di cima. Di non essere vincente, si direbbe nei salotti della domenica sera. Di aver fatto solo diciotto vasche su ventiquattro. E la parola ora spettava a me, da genitore. Cosa insegnare? A respingere questo sentimento di insoddisfazione in nome del divertimento, dell’aspetto ludico, della giovanissima età?; o lasciare che questo impatto con la realtà sedimentasse, pur senza isterismi, rendendo la bambina libera di assaporare il gusto amaro di una incompletezza?

Marek gioca bene spesso, ma non tanto da vincere

Quel giorno le ho parlato di te. Allo stadio sei l’unico che lei non teme di invocare. “Scendi, capitano!” le piace urlare. Marek Hamsik gioca bene spesso, le dissi, ma non tanto da vincere. Proprio come le sue diciotto vasche non le sono sufficienti a passare nel primo gruppo. Hamsik corre, gioca, segna, a volte dice di divertirsi. Proprio come mia figlia – che, l’ho vista qualche giorno fa, a rana nuota meglio di me. Ma non quanto è necessario a tagliare il traguardo per prima. Non quanto il mondo richiede – ed io non sono il mondo. Proprio come Napoli non è il mondo. Ecco, questo credo sia il punto.

I premi della critica non valgono mai un festival

Quel senso di insoddisfazione è la cifra di ogni uomo o donna sul pianeta, le ho detto. Ma è caratteristica esclusiva della diabolica bellezza dello sport la decisione personale sul cosa farne di quella sensazione di insoddisfazione. Il peso del limite che il maestro le aveva giustamente instillato nel cervello, nelle braccia e nelle gambe, era il senso del suo nuotare, il fuoco del gioco che amava. E no. La rabbia per la sconfitta non le sarebbe mai passata del tutto, se non dopo aver completato le ventiquattro vasche in ventiquattro minuti. Vincere non sarebbe mai stato l’unico fine, certo non più dell’imparare lo stare al mondo. Eppure vincere non avrebbe mai avuto eguali. I premi della critica non valgono mai un festival, neppure in terza elementare.

Mino Raiola

Una volta, caro Capitano, un uomo dall’intelligenza feroce disse di te che sbagliavi a non abbandonare la maglia azzurra, lontano dalla quale saresti divenuto finalmente ciò che eri: un atleta brillante, completo e vincente. Quell’uomo è Mino Raiola. Molti lo ritengono, anche a ragione, uno spregiudicato ambizioso, e ne diffidano perché – come lui stesso ammette seraficamente – non si è mai sposato con alcuna squadra. La gente, così pare, storce il naso di fronte a chi non si sposa, e poi la domenica va a seguire le prediche dagli altari tenute da chi non si è mai sposato. Ma queste sono altre storie. Ciò che volevo dirti è che Raiola aveva ragione, a parer mio. Avresti dovuto abbandonarci per spezzare la tua serenità, per evitare di imparare col tempo a convivere col peso della sconfitta e rendere anche lei una passabile routine.

Anche il Capitano non è l’uomo delle 24 vasche

Il Capitano lo amiamo, ma non è l’uomo delle ventiquattro vasche. Non è un delitto né costituisce una colpa. Ciascuno di noi sceglie modalità e tempi delle proprie rese. Così come non è contraddittorio amare un capitano onesto e senza fuoco, specie se egli rappresenta – persino più delle smaniose piccole volontà del sindaco sudista – il cuore della nostra terra: che vive ma non brucia. Si può amare un atleta sperando che vada via. Si può amare il nuoto piangendo al solo pensiero di mettere piede in vasca. Si chiama vita.

La diciassette non si tocca.

ilnapolista © riproduzione riservata