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Il Napoli prova a farsi posto nel sogno cinese del calcio

Calcio ed economia Made in China: la necessità di promuovere il brand Napoli sul mercato del futuro, anche se i cinesi, oggi, guardano a Milano.

Il Napoli prova a farsi posto nel sogno cinese del calcio

Cina e calcio

Lo scoccare dell’anno del Gallo – il 28 gennaio scorso, secondo il calendario lunisolare in vigore nella Repubblica popolare – non segna l’alba del calcio cinese. Da Pechino a Guangzhou, da Shanghai a Chongqing, i tifosi affollano gli stadi da un pezzo, il giro d’affari ha raggiunto 1 miliardo di dollari annui (la metà dei quali per gli ingaggi dei giocatori), e la “Super League”, il campionato di massima divisione, è sponsorizzata dalle maggiori aziende del Paese.

Un “movimento calcio” che nelle ultime settimane ha convinto, con un quinquennale da 20 milioni di euro a stagione, il centrocampista belga Axel Witsel a indossare la maglia (azzurra) della neopromossa Tianjin Quanjian (allenata da Fabio Cannavaro) invece di quella della Juventus.

Il Napoli

La mossa del patron De Laurentiis di far scendere in campo Hamsik e compagni (il 29 gennaio scorso contro il Palermo) con al braccio una fascia celebrativa del Capodanno (alla quale vanno aggiunti i video-auguri ai cinesi del folletto Mertens in un mandarino aspro come un limone, e l’apertura dell’immancabile account WeChat della SSC Napoli) s’inquadra in un contesto di mercato (per alcuni una bolla), nel quale i grandi club europei si sono mossi da tempo.

“La Roma, nel febbraio 2016, in occasione dell’anno della Scimmia, scese in campo con una maglia sulla quale gli auguri erano stampati a caratteri cubitali sul petto, al posto degli sponsor – ci ricorda Han Bingchen, corrispondente dalla Capitale del Quotidiano del Popolo -. In Cina i fan del calcio italiano apprezzarono molto quell’iniziativa”.

Si, perché non sono certo i ragazzini cinesi che hanno pagato solo 5 euro per assistere al pareggio coi siciliani nel fatiscente tempio di Fuorigrotta (un “cesso” secondo ADL), il target del “brand Napoli”, ma le centinaia di milioni di tifosi potenziali che nella Repubblica popolare seguono i campionati stranieri in tv nell’attesa di vedere finalmente competitiva la loro nazionale (allenata da Marcello Lippi), qualificatasi per la fase finale di un campionato del mondo solo nel 2002, quando terminò l’avventura in Corea-Giappone ultima nel girone, senza segnare nessun goal e incassandone nove.

 Soft power

Da quella storica ma un po’ umiliante spedizione, di acqua sotto i ponti ne è passata e la Cina, diventata la seconda economia del Pianeta, rivendica un ruolo sempre più importante sullo scacchiere internazionale. È per questo motivo – oltre che per contribuire, anche a pallonate, allo sviluppo del Paese – che la leadership del Partito comunista (Pcc) un anno fa ha varato un piano per far diventare la Cina una “superpotenza calcistica di primo livello” entro il 2050. Un traguardo che sembra lontano… ma a Pechino ci credono davvero.

La Repubblica popolare cinese, governata ininterrottamente dal 1949 dal Pcc, non ha soft power: le manca una sua Hollywood, una lingua che possa aspirare a diventare universale, un Super Bowl. Affermarsi su uno scenario globale come quello calcistico cento anni dopo la vittoria della rivoluzione del 1 ottobre, avrebbe una forte valenza simbolico-propagandistica. Per questo motivo il piano – varato nell’aprile 2016 dalla Chinese Football Association (CFA) e che sarebbe stato voluto direttamente dal presidente Xi Jinping (del quale si dice sia un appassionato di calcio) – prevede, entro il 2020, la costruzione di 70 mila terreni di gioco, l’istituzione di 20 mila scuole calcio e di far praticare il football a 50 milioni di bambini e adolescenti. “Che un campo (di gioco) ogni 10 mila cinesi fiorisca” potremmo dire parafrasando lo slogan di una campagna maoista della metà degli anni Cinquanta.

Servono professionalità

“La grande contraddizione è la seguente – spiega Nicholas Gineprini -: dal 2015 il calcio è lo sport più seguito nelle tv cinesi e l’affluenza agli stadi è, in media, di 24.000 persone a partita, la quinta al mondo”. “Ma girando per le strade di Pechino e Shanghai – continua l’autore di Il sogno cinese. Storia ed economia del calcio in Cina – troverete solo campi da basket. Ora il calcio è stato introdotto nei programmi di insegnamento di educazione fisica”.

Come per il decollo industriale della Cina nei decenni scorsi è servita la tecnologia occidentale, così per quello del suo soccer ora c’è bisogno di allenatori, preparatori atletici, centri sportivi, oltre ai calciatori stranieri, che dalla prossima stagione di “Super League” potranno essere al massimo tre a partita per ogni team, per favorire la crescita dei giovani cinesi. Parte di questo immenso business andrà alle federazioni, e in questa direzione va l’accordo siglato alla fine dell’anno scorso da Carlo Tavecchio con la CFA. Un’altra fetta se la sono già aggiudicata le tante società – dal Real Madrid all’Inter – che hanno stretto negli ultimi anni partnership con squadre cinesi, istituendo decine di “accademie” nella Repubblica popolare per allevare i talenti locali.

Gineprini sottolinea che “la scuola degli allenatori, le nostre academy per la formazione di giovani calciatori… il patto sottoscritto fra la nostra FIGC e la CFA riguarda anche lo sviluppo di infrastrutture sportive. Ai cinesi interesserebbe anche il nostro prodotto calcio, la Serie A, ma per la promozione del brand siamo indietro anni luce”.

La Cina guarda a Milano

Inoltre il “marchio Napoli” è difficile da promuovere in Cina: se è vero – come recitano i comunicati della Società – che la Cina è un “paese in cui la richiesta di contenuti sportivo-calcistici è in continua crescita ed evoluzione”, non soltanto il terreno da recuperare rispetto al Manchester United o al Bayern Monaco o ad altre big è tanto, ma anche l’immagine di una città afflitta dalla disoccupazione e rappresentata dalle sue splendide antichità non trova ancora posto nell’immaginario del cinese medio, che quando pensa all’Italia guarda dritto a Milano.

Ma, forse, tra gli addetti ai lavori, la promozione del “brand Napoli” potrà presto agevolare operazioni di mercato. Nell’ultima finestra di gennaio ADL ha rifiutato offerte milionarie per l’asso Mertens il quale, poco dopo, ha spedito i suoi auguri in cinese maccheronico per l’anno del Gallo. I cinesi (ma, la storia insegna, anche gli juventini) non sono spaventati dalle clausole rescissorie made in ADL: secondo La Gazzetta dello Sport, per Mertens ne sarebbe stata apposta una per l’Europa e un’altra, ad hoc, per la Repubblica popolare.

E a un presidente che non dà mostra di voler mollare il suo giocattolo ma che negli affari è lungimirante non sarà passato inosservato nemmeno lo shopping cinese di società europee che negli ultimi anni ha centrato anche l’Inter, fatta sua dal colosso dell’elettronica Suning.
Del resto il “brand”, l’identità di un’azienda sul mercato, serve a vendere un prodotto, al prezzo più favorevole per il venditore: come Lavezzi, Cavani, Higuain… E a pagare meglio, nell’anno del Gallo, sono i cinesi.

(direttore di Cinaforum.net)

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