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Sabatini, l’addio alla Roma: «I miei rimpianti? Lo scudetto e la mancata rivoluzione culturale»

La conferenza stampa dell’ormai ex diesse giallorosso. Parole significative, da leggere. Un manifesto di un ambiente difficile e dello stato dell’arte del calcio.

Sabatini, l’addio alla Roma: «I miei rimpianti? Lo scudetto e la mancata rivoluzione culturale»

Walter Sabatini dice addio, dopo cinque anni, alla Roma. Lo fa in una conferenza stampa dal tono commosso, dalle parole significative e importanti. Su quello che è stato, su quello che è mancato. I suoi più grandi rimpianti sono due, e il primo si chiama scudetto: «L’idea di non averlo vinto mi perseguita e mi terrà compagnia per tutta la vita a meno che non riesca a farlo in questa stagione facendo qualcosa di imprevedibile. Ho pensato alcune volte che le diverse squadre che si sono succedute in questo quinquennio potevano competere per lo scudetto. Questo non è successo, è il mio grande rammarico e frustrazione, non mi procura la rabbia che il primo sentimento che di solito affiora in me, ma una tristezza cupa ed irreversibile, a meno che non ci sia un riscatto immediato in questa stagione».

Il secondo, invece, ha un nome più lungo: rivoluzione culturale. «È una cosa magniloquente, importante, che presuppone qualcosa di articolato, in realtà si riferiva ad un’esigenza, cioè pensare ad una vittoria non come una possibilità ma come necessità. Sono deluso, qui si perde e si vince alla stessa maniera e questa è la nostra più grande debolezza. Non sono riuscito a portare a termine questa missione».

Il rapporto con il club, l’addio, il presidente Pallotta: «Finisce qui, ma il resto in carico alla Roma: col cuore, la passione, la mia sarà una assenza soltanto fisica, non di più. Sarò partecipe di quel che accade, di quel che accadrà. Il mio ruolo di direttore sportivo per la Roma, lungo cinque anni, è stato un ruolo totale, la vita, la mia vita. Ho vissuto per la Roma e sono geloso di questo sentimento. Questa è una squadra competitiva allenata in maniera perfetta da Spalletti quindi c’è ancora una possibilità di fare risultati. Ho fatto un ciclo lungo di cinque anni con un’osservazione che faccio costantemente dentro di me che è quella di sapere di avere accanto gente che sà quello che fa. Da un punto di vista emotivo ed emozionale è mancata la convocazione al Circo Massimo dei tifosi della Roma, non era un sogno ma una speranza che si è accesa saltuariamente rispetto alle squadre che sono andate in campo e hanno fatto calcio. Ho pensato alcune volte che le diverse squadre che si sono succedute in questo quinquennio potevano competere per lo scudetto. Questo non è successo. Pallotta sa perfettamente che cosa è la Roma, se ne rendo conto quando viene qui e sa che pressione e passione nella città. Lui è un bostoniano allegro e propositivo, incline allo studio della statistica e alla frequentazione di meeting. Io sono un europeo crepuscolare solitario, forse no un europeo ma un etrusco. Lui vive e pensa al calcio e alle sue evidenze, io in maniera diversa. Da qui nascono i conflitti ma c’è stato un buon rapporto si è sempre fidato del mio operato. Milan e Inter vorrebbero essere la Roma, siamo incappati in un ciclo incredibile della Juventus, ma soprattutto con le scelte di Paratici e Marotta».

Il perché di questa scelta: «Sono cambiate le regole di ingaggio, il presidente e i suoi collaboratori legittimamente puntano su altre prerogative. Adorano la statistica e stanno cercando un algoritmo vincente. Io non vedo il pallone come un oggetto sferoidale fatto con un certo materiale e con quanti impatti balistici può avere l’impatto. Io vedo un universo intero, per me la palla è qualcos’altro. Il mio calcio non può essere portato alle statistiche, le statistiche aiutano ma tradiscono. Anche io a volte mi confondo e poi prendo Piris, non era un giocatore da Roma. Devo dire che con molta fortuna l’avere supera prevalentemente il dare. Io sono un uomo leale che non può fare il massimo in questa situazione, mi è successo un episodio che è stata la causa scatenante di questa mia scelta. Riguarda un giocatore che sta facendo molto bene che ho perso perché mi è mancata l’arroganza la forza e la sicurezza di fare quella operazione e sentendo alle mie spalle tutta una serie di recriminazione, ho perso l’attimo fuggente. Perso questo giocatore ho capito che io non merito più la Roma. Dopo questo episodio ho capito che non devo più essere io il direttore sportivo della Roma. Io adesso mi cercherò una tana dove rinchiudermi, voglio un pertugio dove nascondermi e stare zitto e non ascoltare».

Totti: «Non esagero quando dico che rappresenta una questione sociologica: tutti vogliamo Totti. Io gli darei il Nobel per la fisica, un Nobel per quel che ha regalato a tutto il calcio italiano e non solo, giocate che nessuno sarà più capace di riprodurre. Un Nobel per la fisica perché le sue traiettorie rimettono in discussione Copernico, Keplero e simili. Però Totti è anche un tappo, porta una luce abbagliante che oscura tutto un gruppo di lavoro, e questa sua luce comprime finisce per comprimere la crescita di questo stesso grupo. Fatale che sia così. Tutti faticano a staccarsi da lui».

La fiducia nei dirigenti: «Baldini è diventato un massone dannoso e Baldissoni un arrogante avvocato che gioca a calcetto. È meglio che la Roma sia debole perché così i latrati a pagamento possono avere una funzione. Io fra 20 minuti uscirò da questa sala e non sarò più il direttore sportivo della Roma. Dico a voi giornalisti: fidatevi dei dirigenti, non fateli diventare carne al macero da calpestare da qualsiasi parte. Non hanno da rimettere coloro che diffamano costantemente, e non sto parlando di chi critica io ho le spalle larghe. Non sto dicendo che abbiamo perso per colpa della stampa. Ma mi sono mai chiesto perché la stampa qui non sostiene la Roma come invece fanno in altre piazze. Sostenete la Roma».

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