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Napoli e la Nazionale, Freud si incazza e si arrende

Napoli e la Nazionale, Freud si incazza e si arrende

“E questo è quanto ci ritroviamo a fare, dottore. A non amare una nazionale che ha tra le sue fila alcuni dei nostri migliori calciatori; a maledire un Paese in cui non ci riconosciamo ma il cui campionato sogniamo di vincere ogni anno; a tifare per ripicca per la nazionale argentina; ma a sperare che Messi sbagli il rigore decisivo perché non deve essere meglio di Lui”.

Herr Freud si porta le mani alla faccia per coprirsi il viso. Si stringe tra le spalle in un lungo sospiro. Poi uno sbuffo profondo.

“Dio mio benedetto (che non esisti) che noia, che noia – ora quasi urlando – che noia!”

Le mani scivolano sulla fronte larga, intrecciano qualche capello, strizzano gli occhi.

“La vostra vita comunitaria è tutto un ri-dire, un ri-detto, un ri-portato, un ri-ferito, un ri-cordato. Siete un teatro vivente, come sostenete spesso, come vi gloriate di dire a tutti, e questa è una iattura, lo capite?, la vostra particolare maledizione. Siete rappresentati, vi rappresentate, evocate e poi non vi vedete? siete venuti in cura da me, da mesi. Dal mito della psicanalisi, il guru delle interpretazioni pulsionali. Avete scelto il maestro perfetto. Ma sapete quanti anni ho io? Centosessanta, dio mio benedetto (che non esisti), centosessanta…”

“Ma lei è un luminare, professore”

“Un luminare di quasi due secoli? Passate di fantasma in fantasma, di oracolo in oracolo. E poi di miracolo in miracolo. Sprigionate una tale noia mortifera… Volete sapere chi ha scritto le cose più interessanti su di me? Sul mio lavoro? Le hanno messe giù Gilles Deleuze e Félix Guattari, due francesi di quelli spocchiosi, ciarlieri e civettuoli, rivoluzionarucoli e sessantottini, di quelli che non sopporta nessuno al mondo, certo non io, della Moravia asburgica. Sono stati i più grandi, i più innovativi, perché hanno preso il mio lavoro, tutto intero, il discorso di una vita intera, sorgente di decenni di storie, e lo hanno frantumato in mille pezzi e gettato in una discarica abusiva – Freud ha un fremito, si asciuga i lati della bocca col dorso della mano – Mi hanno sput-ta-na-to, capite? – un altro fremito lo fa vibrare – E hanno fatto bene. Perché tutto quello che toccavo era Edipo, ogni problema per me era un problema di padri e figli e madri e famiglie. I problemi del mondo erano solo i miei problemi. Io ero dappertutto. Ero bloccato e bloccavo tutto. Come voi e lo straccio dei vostri miti e dei vostri lamenti”.

“Questi due francesi – un sorriso gli tira il lato destro del viso – bastardi e talentuosi, scrissero un libro di successo e dal titolo chiaro, L’Anti-Edipo. Con un’idea semplice: quella di smontare tutto il mio castello di carte e dire al mondo che il desiderio, questo oscuro motore delle nostre vite, non è frutto di alcuna rimozione di infanzie infelici, come ho continuato a dire fino a morirne. Ma è il risultato di una macchina, di mille macchine desideranti, produttrici ed innestate una sull’altra, di processi, di flussi collegati tra loro, come il seno e la bocca. Di cose in movimento. Noi stessi siamo macchine desideranti, bricoleurs. Capite? Ildesiderio di quel mangiarane di Deleuze è produzione. Mentre il mio è una angoscia. Ho vissuto una vita intera per capire che avevo iniziato qualcosa che avevo completamente equivocato.”

Il dottor Freud sembra piangere. O forse piange per davvero. Intorno una fissità funerea e delirante.

“Cari amici – riprende ora con occhi lucidi – voi napoletani non producete più niente da almeno cinquant’anni. O ottanta. O cento. E siete venuti dal professore sbagliato. Anzi, dal morto sbagliato. Questo è un passo di Henry Miller che quei due francesi riportano nel loro libro – e legge con voce rotta dal pianto:

Risalendo ai tempi eroici della vita, voi distruggete i principi stessi dell’eroismo, perché l’eroe non solo non dubita della sua forza, ma non guarda mai indietro. Amleto si prendeva senza alcun dubbio per un eroe, e per ogni Amleto-nato la sola via da seguire è quella che Shakespeare gli ha tracciato. Ma si tratterebbe di sapere se siamo tutti degli Amleti-nati. Siete nato Amleto? Non avete piuttosto fatto nascere Amleto in voi? Ma la questione che mi pare più importante è questa: perché tornare al mito? Questo ciarpame ideologico di cui il mondo s’è servito per costruire il suo edificio culturale. Non c’è vita possibile nel mito. Da questo mondo di idee in cui diguazziamo dovrà uscire un altro mondo. Ma questo mondo non potrà apparire se non in quanto viene concepito. E per concepire bisogna dapprima desiderare. Il desiderio è istintivo e sacro e solo attraverso il desiderio operiamo l’immacolata concezione.”

“Dottore – diciamo approfittando della breve pausa – noi pensavamo di trovare una speranza venendo da lei, ecco tutto”

“Una speranza? – controbatte il Professore quasi allucinato – Forse non c’è speranza per nessuno di noi. Smettete i panni dei teatranti una buona volta. Basta con le elegie e le trenodie! Basta con le biografie e le storie e le biblioteche e i musei! I caffe letterari! Lasciate che il morto mangi il morto. E noi vivi danziamo sull’orlo di quel cratere che vi sovrasta, un’ultima danza di morte. Ma che sia una danza!”

Raccoglie un libro ingiallito posato sulla sua scrivania. Il Tropico del Cancro di Miller. E recita con la solennità di un profeta che evoca in un sorriso la sua distruzione:

“Amo tutto ciò che scorre. Sì, dicevo a me stesso, anch’io amo tutto ciò che scorre: fiumi, fogne, lava, sperma, sangue, bile, parole, frasi. Amo il liquido amniotico quando sprizza dal suo sacco. Amo il rene con i suoi calcoli dolorosi e la renella e roba simile; amo l’orina che si versa calda e lo scolo che scorre all’infinito; amo le parole degli isterici e le frasi che si riversano come dissenteria e rispecchiano tutte le immagini morbose dell’animo. Amo tutto ciò che scorre, tutto ciò che ha in sé tempo e divenire, che ci riporta al principio dove non c’è mai fine: la violenza dei profeti, l’oscenità che è estasi, la saggezza del fanatico, il prete con la sua gommosa litania, le parole sozze della puttana, lo sputo portato via nella fogna, il latte della mammella e l’amaro miele che si versa dall’utero, tutto ciò che è fluido, fuso, dissoluto e dissolvente, tutto il pus e il sudiciume che scorrendo si purifica, che perde il suo senso originario, che fa il grande circuito verso la morte e la dissoluzione. Il grande desiderio incestuoso è scorrere all’unisono col tempo, sprofondare nella grande immagine dell’aldilà che è l’hic et nunc. Un desiderio fatuo, suicida, costipato di parole e paralizzato dal pensiero”

Chiude e conclude: “Henry Miller lo scrisse nel 1934. Io sarei morto cinque anni dopo. E sono ancora morto”.

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