Mentre cerco di leggere il quotidiano, mentre lotto per andare oltre quel turpe titolo sulla panzetta, una telefonata cambia il mio umore e mi lancia nella storia. Per uno sconosciuto come me, ignorante in ideologia, sia teorica che applicata, la storia ha un fascino ed un orgoglio che impugna tutte le contraddizioni possibili. Il comandante Ernesto Guevara, detto il Che, mi chiede un’intervista, mi aspetta, con inaspettata pazienza, a Piazza Mercato.
Tutto, intuisco, sarà incorniciato in molteplici intrecci: Piazza Mercato è stato il palcoscenico della colpa di cui la città si macchiò con l’esecuzione dei rivoluzionari partenopei.
Arrivo ansimante, dopo una corsa affamata di curiosità.
Il Comandante mi aspetta ad un bar, ha ordinato un rum e affianco al bicchiere ci sono un cohiba e l’inalatore per l’asma. L’orgoglio per essere stato contattato da una leggenda mi acceca, e cerco di mettermi alla pari: poso sul tavolo il mio toscano antico, anche l’extra vecchio sarebbe stato ridicolo, penso, e il mio inalatore.
Ade ha dato al Che un colorito pallido, ma i suoi occhi conservano la brillantezza e testimoniano un’acutezza che non può morire.
«Un asmatico, un toscano. Le due cose vanno di pari passo, anche l’allergia è un vizio».
Comandante, buongiorno. Sono onorato di essere in sua presenza e la ringrazio per avermi chiesto questa intervista.
«Fatti della massima urgenza necessitano d’essere chiariti, e solo un Argentino capisce un Argentino».
Capisco l’antifona e per far comprendere a chi mi sta di fronte che sono pronto ad ascoltare piuttosto che parlare, accendo l’antico e lascio che il fumo ci circondi, che l’aroma ci sollevi.
«Un giornalista italiano venne a Cuba anni fa, stava scrivendo un libro sui Toscani (anche lui accende il suo sigaro) e quando lo invitammo a visitare una manifattura di sigari, accettò. Il soldato che lo accompagnava lo portò di fronte agli operai e gli chiese di dire qualcosa; lui, imbarazzato, riuscì a dire solo che il toscano è il sigaro degli uomini veri. Tutti risero. Sa cosa penso io? Che aveva ragione. Vede, il Cohiba, mio fedele amico, sta bene con molte cose, lo si può accompagnare e accompagna; il Toscano no, lo si può forzare con un passito, ma il toscano nasce dal tabacco bagnato e abbandonato, matura come prima colazione dei contadini della maremma. Li vede quegli omaccioni consumati, prima dell’alba, andare verso i campi maledicendo la vita e ringraziando questi cosi storti, forti, pesanti, infernali sulle labbra?».
Stupito ribatto: Non credevo parlassimo di sigari…
I suoi occhi brillano e assumono la forma che immagino tutti i suoi avversari abbiano tanto temuto prima ancora di incontrarlo
«Non parliamo di sigari infatti, parliamo di chi vuole stare da solo, di chi sa esclusivamente stare da solo, di chi ha intuito che l’unica maniera d’essere per un uomo è quella di essere contro se stesso. Durante la guerriglia, a Cuba, in Congo, ovunque, sentivo l’odore dell’erba del rugby, di quando urlavo Fuser e mi lanciavo. Poi mi guardavo attorno e vedevo i miei compagni. Un solitario è uno sportivo e un rivoluzionario, un solitario odia se stesso e ama tutta la ragione e l’anima che ci sono tra lui e gli altri. L’Argentina non è come il Brasile, l’Argentina è una terra di solitari, di occhi che spogliano, che feriscono. L’Argentina è asmatica, passa le notti a desiderare l’aria, ad affossare il giugulo, notti prive di sonno ma non insonni, notti di lavoro contro se stessi, in cui l’unico avversario esistente è nascosto talmente bene da immedesimarsi in noi. Un asmatico fuma perché arriva ad odiare l’aria, la deve sostituire con qualcos’altro per non affogare».
Tira forte al suo cubano, tira fuori dalla sua bocca e l’aroma dolce delle foglie che si narra siano arrotolate sulle cosce nude delle caraibiche, cerca di intrufolarsi nella mia densa nebbia italiana. Butta giù un sorso di rum e continua.
«Gonzalo e la sua pancia, Gonzalo e l’astinenza da gol, la crisi di Gonzalo, ma voi non capite, non potete capire, che l’unica cosa di cui si può discutere è Gonzalo e la sua solitudine».
I suoi occhi si illuminano, non sono morti, non sono stesi in una foto agghiacciante, nel trionfo di chi sa chi, sono vivi, e io non posso fare a meno di pensare che fu questo sguardo che Orfeo lanciò a Euridice, fu un desiderio di vita a ricacciare l’amore nell’Ade e non la poca resistenza del cuore.
«Non si tratta di tristezza o di malinconia o di nostalgia, no. Si tratta di capire che ci sono uomini poco carismatici per scelta, uomini che scendono in campo e dal primo istante si concentrano per non essere se stessi, per lasciare spazio a sufficienza negli occhi e nella mente da farci entrare ogni singola azione. Gli Argentini hanno nel sangue questa solitudine, così come il vostro sangue è solido, rigido, sferico, limitato, solo. Fossi in voi, non chiederei più al vostro patrono di scioglierlo, ma ci vivrei, asseconderei tutto il pesante onore che ne consegue, ad avere il sangue duro.
Dobbiamo farci sentire, non possiamo lasciare tutto alla pancia».
Io resto esterrefatto, incantato dalle parole di questo sigaro fuoriuscito dalla bocca della morte
Comandante, come si sta dall’altra parte?
«Così come diceva Achille, darei tutto per essere ancora vivo».
Tentenno, non so cosa dire. Mi guardo intorno, mentre la leggenda continua a fumare e a seguire una partita tra ragazzini nella piazza. Già, Piazza Mercato, la fine ingloriosa della rivoluzione Partenopea, uomini soli che non trovarono appoggi né tra il popolo né tra chi comandava, uomini e donne dal sangue duro e non sciolto.
Gonzalo è solo, davanti alla porta, e per lui essere davanti alla porta comincia dal centro campo o forse anche prima e ancora prima, Gonzalo ha il sangue duro e io prego chi di dovere che così rimanga. Magari un miracolo mi sarà concesso: nun m’ ‘o squaglià ‘o sang dintì’ ‘e ven, tu lo sai, io ti voglio bene.
Ordino un caffè, io.
Comandante, per quanto riguarda lo scudetto…
«Hasta la victoria, siempre!».