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A Napoli si può vincere una partita di calcio senza ansie di riscatto né sfogliatelle?

A Napoli si può vincere una partita di calcio senza ansie di riscatto né sfogliatelle?

Stamattina ho mangiato il pandoro. Sì, quello Bauli. Di Verona. Era buono. Molto buono. Amo il pandoro Bauli. Ho scoperto con una certa soddisfazione che piace anche a mio figlio Adriano. Stamattina, prima di andare all’asilo, mi ha osservato mentre lo addentavo e lo ha voluto anche lui. È stato bello vederlo addentare il pandoro Bauli di Verona. Amo quasi tutto del pandoro Bauli. Ovviamente preferisco la crosta ma non disdegno la “mollica”. Ho trascorso non so quante tarde mattinate a pulire la busta di tutti i rimasugli del pandoro. Quello zucchero a velo che si condensa. Però sono bravi a Verona.

Il pandoro non è stato il mio primo pensiero, confesso. Il mio primo pensiero è stata una debolezza. Sono andato con la testa alla partita di domenica a Bologna, ho riflettuto sugli ultimi venti minuti di Napoli-Inter, sul turn-over. Poi mi è tornata prepotentemente in testa l’immagine di Sarri che apre la porta dello spogliatoio e dice: “Vi siete cacati addosso” e mi sono rasserenato. 

In queste trentasei ore non ho notate grandi differenze a Napoli. I mezzi pubblici – sì, abbiamo i mezzi pubblici – passano regolarmente. Regolarmente vuol dire come prima. I “miei” – uso la funicolare – sono sempre puntuali. Anche oggi sono stati puntuali. La signora dell’edicola non ha fatto alcun accenno a San Gennaro quando mi ha detto che sarei dovuto tornare nel pomeriggio per ritirare l’abbonamento mensile. Ah sì, noi paghiamo anche il biglietto.

Ho notato che i quotidiani – qualcuno ancora legge – hanno dedicato almeno una pagina al riscatto della città. Se ho ben capito, dalla partita di lunedì sera, che ci ha consentito di tornare in testa alla classifica dopo 25 anni, una scarica elettrica si è immediatamente propagata su Napoli e d’improvviso una popolazione si sarebbe ridestata da chissà quale torpore e sarebbe pronta a riscattarsi. Non me ne sono accorto ma confesso il mio essere un po’ distratto. Sono gli stessi in realtà che quest’estate avevano definito mediocre il nostro calciomercato. 

Insomma, nella mia ingenuità – che poi ho la presunzione di ritenere che sia di tanti – lunedì sera una squadra di calcio ha momentaneamente vissuto e regalato ai propri tifosi una gioia intensa dopo un’attesa di venticinque anni e dopo una semina lunga un decennio. Correva l’estate del 2004. Un imprenditore romano, sia pure originario della provincia di Napoli, da sempre impegnato nel cinema, rilevò il Napoli ormai fallito e nel corso del tempo ha fatto progressivamente crescere questa sua azienda. Il signore si chiama Aurelio De Laurentiis. Tutto sommato non è molto amato in città. Il suo soprannome è “pappone”, ovvero ricottaro, magnaccia. Sfrutterebbe noi prostitute del tifo pronte a tutto, a svenarci, per amore del nostro Napoli. In realtà non è così. Napoli è come Udine, come Roma, come Milano: se si vince si va allo stadio, sennò si resta a casa. Qualche mese fa ci fu una sollevazione popolare per il mancato acquisto di un calciatore che di cognome fa Soriano. E in prima fila c’era quella società civile che oggi ci spiega quanto i successi del Napoli facciano bene alla città. Il nuovo stadio De Laurentiis lo vorrebbe di 41mila posti (come lo Juventus Stadium) perché non si riempie quasi mai.        

Persino quotidiani storici che hanno fatto la storia del giornalismo italiano oggi raccontano di una Napoli che purtroppo sfugge ai miei occhi. È la Napoli che una parte d’Italia – ma anche della nostra stessa città – vuole mostrare. È Totò che mangia gli spaghetti con le mani in Miseria e nobiltà. È sempre quella. È Funiculì Funiculà. È la pizza, il sole, il mare, ’o cafè, Pulecenella. E ultimamente va aggiunta anche l’ultima moda indotta: la degustazione di urina. Anche perché il protagonista somiglia tremendamente a Sarri. 

C’è una rappresentazione di Napoli che scatta in automatico. Come se non facesse notizia altrimenti. Una spruzzata di San Gennaro qui, una sfogliatella là, il terno secco, la tarantella. In realtà questo Napoli è quanto di più lontano possa esserci da una simile messinscena. Piaccia o no, è un Napoli figlio di un’idea imprenditoriale. Magari non di lunghissime vedute – è una società che non fa investimenti, non ha immobili, potrebbe essere impacchettata e portata altrove in una notte – ma sicuramente efficace ed efficiente. In Europa appena quindici squadre sono davanti al Napoli. Una società che in questi anni è stata capace di portare ai supplementari di Champions il Chelsea futuro campione, e senza San Gennaro. Una società che ha attirato a Napoli l’allenatore che oggi – piaccia o no – siede sulla panchina del Real Madrid. Una società che per la prima volta nella sua storia ha acquistato calciatori dalla società che fu di Santiago Bernabeu. Ben tre. Il massimo della sprovincializzazione. Una società che ha poi ingaggiato un allenatore che per il calcio ha abbandonato il posto in banca: è riuscito nell’impresa di riscattare il compagno di scuola di Venditti. Un allenatore che ha passione, è bravo, ama il suo lavoro. Magari gli scappa pure qualche bestemmia. È toscano, nessuno gli dice niente a Napoli. Un allenatore che è stato persino criticato da Maradona. E anche in modo greve. “Sembra mio zio”, disse di lui Diego, probabilmente mal consigliato, dopo le prime giornate in cui Sarri e il Napoli stavano zoppicando. Forse per questo dal presepe che i quotidiani in questi giornali hanno allestito manca il pastore di Maradona. Un altro immancabile. 

Insomma, questo Napoli può essere raccontato in tanti modi. Ce ne sono di filoni interessanti e originali. È soprattutto una storia di progettualità. Di investimenti. E di cadute. Come capita a chi lavora. Proprio quando tutti si aspettavano lo smantellamento dell’impresa in base a un presunto fallimento sportivo, il presidente non ha venduto nessuno ed è ripartito con un’altra idea. Mesi fa, intervistato da Repubblica, da Antonio Gnoli, Ermanno Rea partorì una frase che ti inchioda: «certi luoghi comuni sicuramente facilitano la vita, però non la spiegano». Rispose così all’osservazione che napoletano e comunista suonava come un ossimoro. Ecco. Anche a Napoli si può vincere una partita di calcio senza per forza dover aprire il cascione dei luoghi comuni. Poi può capitare che il primo posto coincida con l’inizio di una lunga campagna elettorale e che qualche candidato pensi di conquistare un voto in più twittando di pallone. Ma questo accadrebbe anche a Forlì, diciamo la verità. Noi amiamo ricordare che Napoli vinse il suo primo scudetto senza sindaco: c’era il commissario straordinario.

In Campania c’è il più folto Inter Club d‘Italia. Qui a Napoli stiamo pieni di juventini, interisti e ultimamente persino di romanisti. Ci sono finanche, e non sono pochi, quelli che il pallone non gliene frega niente. Noi tifosi, invece, possiamo essere preoccupati per quei quindici minuti finali. Ma questa voglia di riscatto non pare così palpabile. Come? Non lo sapete? E se non lo sapete è perché di Napoli cercate solo e soltanto le immagini e le persone che riproducono quello che avete in mente di questa città. Ora vi lascio, è finito il pandoro Bauli. Vado a comprarlo prima che chiudano i negozi. 
Massimiliano Gallo

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