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In questo folle calciomercato quanto costerebbe oggi Filippi?

Ci siamo chiesti e ci chiediamo come i prezzi dei giocatori lievitino e perché si arrivi a cifre folli per atleti di tutti tipi, a partire dai talenti in erba fino ad arrivare ai vecchi filibustieri del pallone. In base a quale logica le cifre (cartellino ed ingaggio ) di un giocatore che l’anno scorso costava 10 milioni oggi arrivano a 20 e li superano abbondantemente, vedi Maksimovic? Perché quando inizia una trattativa il giocatore costa 8 e poi arriva a 15 (forse per una presunta concorrenza o rilancio di altre squadre?), vedi Vrsaljko? Perché quando il Napoli si interessa a un giocatore che ha appena fatto un torneo di B la cifra cresce come i tortani ed i casatielli di Pasqua, vedi Oikonomou? Perché la Roma avrebbe questo grande talento fatto in casa, Romagnoli, e non se lo tiene invece di “sparare” 25 milioni? Perché si inventano trattative impossibili, senza alcun fondamento, per far sognare i tifosi, vedi Bartra del Barcellona?

Questo pazzo mercato è distante anni luce da quello che si impostava e si tentava di portare a termine qualche lustro fa. Una sola considerazione base ci viene in mente e che spesso muoveva la logica di chi andava a prendere gli elementi per fare una buona squadra: la continuità di rendimento, la sicurezza di prendere un giocatore che poteva sbagliare tre partite ma che, nell’arco di un campionato, faceva sentire la sua presenza, la sua anima e diventava cuore pulsante, elemento affidabile su cui scommettere ad occhi chiusi. Un giocatore, in definitiva, che aveva mostrato il suo valore nell’arco di due, tre campionati, non di 20 partite come accade oggi. Al di là di un viaggio nel tempo in cui potremmo individuare vari giocatori che, per rendimento, sono stati protagonisti nel Napoli, dallo scudetto in poi, ci preme ricordare un giocatore che per tre anni consecutivi vinse, con la media conquistata con le famigerate pagelle, il titolo di “miglior giocatore italiano”. Questo omino, perché tale è rimasto anche dopo una sfortunata parentesi di allenatore, si chiama Roberto Filippi. E qui, signori, ne andiamo a narrare le gesta senza prima chiedervi: quanto costerebbe il suo cartellino oggi?

Piccolo era piccolo, 169 cm. di corsa sfrenata ma fu anche peso piuma. La bilancia sfiorava solo i 60 kg ma la forza della natura si era impadronita di quel corpicino/fisico mingherlino e, a modo suo, ben proporzionato. In quegli anni non ci fu bisogno di scomodare Gianni Brera per coniargli un nomignolo perché bastava guardarlo per chiamarlo con un nome che facesse simpatia. Da allora in poi fu “Furia”, “Pippo” e poi “Pony Express”.

Roberto Filippi, patavino doc, classe 1948, reggente e furente centrocampista di un Napoli a cavallo tra il 1978 e il 1980, due stagioni che non gli valsero la riconferma per i soliti ribaltoni societari e tecnici di cui soffriva la società in quegli anni. Una permanenza che non fu lunga dopo qualche panchina con Vinicio ed una strana dichiarazione che suonava più o meno così: “Qui a Napoli l’aria è diversa, c’è qualche giornata fredda ma poi vien il sole e tutto si riscalda. Nel freddo, però, si corre meglio…”. 

La sua carriera ha dell’anomalo perché dopo un periodo di anonimato tra serie C, B ed A (solo tre presenze col Bologna nel 1972) scoppia letteralmente col Vicenza nel biennio 1976-78. È la squadra del futuro “Pablito” Rossi ma anche del mago di provincia G.B. Fabbri, è un gruppo di calciatori che ancora oggi è ricordato come Real Vicenza perché fece miracoli piazzandosi alle spalle della Juventus campione d’Italia. Vero fenomeno di calcio autoctono e patriottico. Molti dei gol di Rossi furono ispirati da questo folletto che, per la sua velocità sulle fasce e le sue discese, i cross e le verticalizzazioni, si beccò subito il nickname di “Furia”, una sorta di cavallo del West anzi del Nord-Est.

Fu l’idolo della bolgia del “Menti”, un campo notoriamente ostico anche agli azzurri, e fu soprattutto un giocatore che ogni anno vinceva sistematicamente tutti i premi di rendimento, Guerin d’Oro in primis. Insomma se avessero inventato il Fantacalcio in quegli anni tutti avremmo fatto a gara per “acquistarlo”. Le sue pagelle erano come quelle del figlio studioso ed intelligente, quello che quando i genitori vanno a scuola per i colloqui, i professori dicono: “E che siete venuti a fare?”. Roberto Filippi era così, quando non era in forma (molto raramente in verità) beccava voti tra il 6,5 ed il 7, quando era in palla (quasi sempre) quei voti magicamente si arrotondavano fino a sovrastare tutti gli altri giocatori in campo.

Il Napoli giovane di Di Marzio, silurato già alla seconda di campionato per fare posto al ritorno di Vinicio in panchina, lo acquista nella prima stagione del dopo Juliano insieme a Castellini, Caporale, Caso, Pellegrini, Tesser e Majo. Il Vicenza sa di avere un giocatore di rendimento elevatissimo e per darlo al Napoli pretende tanti soldi più Mocellin, campioncino in pectore che non sbocciò mai. Ferlaino fa il sacrificio, Di Marzio lo pretende per un centrocampo tutto nuovo di zecca, da ricostruire dopo l’addio di “Totonno”. Filippi fu il “botto” della campagna trasferimenti del 1978 e, come era successo con Savoldi tre anni prima, Ferlaino riuscì a fare abbonamenti con una squadra rinforzata molto sulla carta.

Il giorno del raduno il neo acquisto si presentò in sede con un ampio camicione, due collanine hippy che gli circondavano il collo in bella evidenza, jeans e scarpe col tacco. Con capelli lunghi che ricordavano quelli di Giorgio Braglia, baffi e basettoni da moschettiere, fece la stessa impressione che potrebbe fare oggi un giocatore pieno di tatuaggi, aveva un’immagine davvero “forte” per quei tempi. Sembrava uno un po’ sui generis, strambo e “costretto” a vivere in albergo perché tutte le case di Posillipo gli sembravano troppo costose. Una volta rispose ad una signora che gli chiese 700.000 lire di affitto: «Non sono venuto a Napoli per lavorare per lei!».

Osannato quasi a prescindere dalla critica, il nostro Furia correva per 90 minuti, era uomo ovunque, fu fonte inesauribile di gioco. Coraggioso, di grande temperamento, dotato di polmoni di acciaio che gli consentivano sgroppate e recuperi senza sosta, Di Marzio lo impostò col numero 8 ma con Vinicio prese stabilmente l’11 e diventò giocatore universale. In campo si trasformava e la sua proverbiale timidezza di padovano catapultato in una realtà come quella di Napoli la mutava in campo mettendo in azione le piccole leve delle sue gambe di brevilineo. È come se, attraverso la sua corsa disperata, volesse emergere in uno sport per il quale non aveva proprio il fisico dell’atleta. Filippi sapeva, comunque, anche giocare e non solo correre, usava i due piedi con disinvoltura e pur correndo come un folle raramente sbagliava un passaggio. Fece un primo anno fantastico, ai suoi soliti livelli, dimostrando di essere uno dei perni degli azzurri. Purtroppo, come detto, chiese di essere ceduto dopo qualche mugugno ed entrò in urto con la società l’anno dopo. Addirittura venne messo al minimo di stipendio e quando giunse a più miti consigli rientrò in squadra ma non aveva il morale alle stelle. La cessione all’Atalanta diventò quindi inevitabile. Un unico gol nel Napoli, il primo della vittoria esterna per 2 a 1 sul Milan del novembre 1979 a fronte di 55 presenze timbrano un cartellino che poteva essere molto più ricco.
Davide Morgera

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