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Una serata comunque storica per il Napoli e per De Laurentiis. Esserci sarebbe stato importante (soprattutto per il futuro)

Una serata comunque storica per il Napoli e per De Laurentiis. Esserci sarebbe stato importante (soprattutto per il futuro)

Il Napoli è fuori dall’Europa. Abbiamo perso la terza semifinale europea della nostra storia. L’unica che abbiamo vinto la giocammo 26 anni fa. Siamo stati eliminati dal Dnipro. Un gol discusso che nella mia idea di calcio potrei persino giudicare al limite (anche se a Dortmund per molto meno fischiarono fallo a Fernandez su Lewandowski) e comunque, per non addentrarmi in contese arbitrali, ininfluente. Un gol avremmo dovuto segnare in ogni caso e non lo abbiamo segnato. Abbiamo avuto una grande chance con Higuain a inizio partita e poi poco altro: una spizzata di Gonzalo ben deviata in angolo dal portiere avversario e tante mischie sotto porta loro che alla fine si sono rivelate infruttuose.

Il Napoli ha perso. Ma ha perso una partita che nella sua storia ha giocato tre volte. Insomma, un’eccezione, non la tappa di un percorso. Avrebbe potuto vincere certo, considerata la caratura degli avversari che si sono comunque rivelati ostici anche se indubbiamente più deboli di noi. La sfida l’abbiamo perduta al San Paolo. 

Al triplice fischio finale sono partiti i processi, l’attività preferita dai tifosi di ogni latitudine. Altrimenti Aldo Biscardi non avrebbe creato una trasmissione cult, pallida imitazione del processo alla tappa con Sergio Zavoli e quelle biciclette che raccontavano le storie degli uomini. Doveva mettere Hamsik, la cui assenza effettivamente sarà a lungo motivo di discussione. Perché Gabbiadini? Zapata serviva. Higuain non la butta più dentro e via dicendo. Con l’ansia di trovare uno o più colpevoli. Un’ansia e una rabbia dettate in fondo da una inconfessabile (e peraltro sbagliata) consapevolezza: tra quanti anni la rigiocheremo? Sarà anche la risposta che il tempo fornirà a questa domanda a stabilire il valore di questa stagione. 

Ed eccoci al punto. Perfettamente centrato da Fabio Avallone. È nella sconfitta che si capisce se un domani ci sarà una vittoria. È difficile far comprendere quanto tempo occorra per creare un ambiente vincente. Ambiente: società, squadra, allenatore, tifosi, media. Abramovich – tanto per fare un esempio – è stato a lungo sfottuto nel calcio che conta, ha finito per vincere la Champions col suo Chelsea quando ormai aveva perso le speranze. Ivan Lendl a lungo venne considerato un perdente di lusso prima che John McEnroe si suicidasse sulla terra rossa di Parigi una domenica di giugno.

È questa ansia che contribuisce ulteriormente a smarrire la serenità. Il Napoli, questo Napoli, ha raggiunto un obiettivo storico, ha vissuto e sta ancora vivendo una stagione da protagonista in tutte le competizioni (fatta eccezione la Champions in cui siamo usciti ai preliminari). Eppure sembra che sia una stagione fallimentare. Come se avessimo la bacheca piena di trofei e certamente senza avere la consapevolezza di come quei trofei si conquistino.

Dispiace dirlo ma di questa semifinale resterà l’assenza di De Laurentiis a Kiev. Ci saranno stati sicuramente motivi gravi, non lo mettiamo in dubbio, ma l’assenza della società in una partita fondamentale – e una settimana dopo le accuse lanciate a Platini – è una figura triste. Per vincere occorre vivere un lungo percorso, costellato di insidie, cadute, gioie effimere, delusioni, accidenti, casualità. Senza mai perdere di vista l’obiettivo: la crescita costante. De Laurentiis ha rivelato ancora una volta quella che a mio avviso è la sua più grave lacuna: l’incapacità di gestire i momenti negativi, la maledetta ansia di apparire solo quando si vince o quando si riesce a essere protagonista. Manca la capacità di soffrire, di rimanere all’angolo a prendere cazzotti con la paura che si possa cadere da un momento all’altro. Un giorno, negli spogliatoi del San Paolo, volarono non solo parole tra lui e Reja al termine di un Napoli-Lazio. Il buon Edy, tra le altre cose, gli gridò: ti fai vedere solo quando vinciamo, quando perdiamo la faccia non ce la metti mai.

Il percorso, il progetto, è più forte di una vittoria o di una sconfitta. Perché è quel cammino che inevitabilmente ti condurrà a giocartela. Così come è accaduto, peraltro. Ma se non zigzaghi, è meglio. Se non abbandoni squadra e allenatore per provare a uscire vincente da una brutta situazione, l’ambiente ne guadagna. È questa la lacuna. Non il calciomercato, non i mancati acquisti. La sconfitta di Kiev acquisterebbe un altro valore se incastonata in un disegno preciso. Disegno che ha De Laurentiis come protagonista e che ha portato il Napoli tra le prime venti squadra d’Europa, a giocarsi una semifinale dopo 26 anni e a essere sempre ai vertici del calcio italiano. Il miglior ciclo della storia del Napoli dopo quello degli anni d’oro. Grazie a De Laurentiis, ovviamente. Il livello è salito e ora anche lui deve compiere un salto di qualità. Soprattutto mentale. Da questo dipenderà il futuro del Napoli e gli anni che trascorreranno prima di disputare un’altra semifinale europea.

Lentamente registriamo con soddisfazione che un tema – su cui noi battiamo da tempo, immaginate con quanta gioia dei tifosi – si sta facendo largo tra gli addetti ai lavori, quello dell’ambiente, delle assurde pretese, dell’eterna insoddisfazione. Marco Azzi, giornalista di Repubblica, lo scrive in un tweet: “Intorno al #Napoli c’è una crisi di vocazione: dei tifosi. Al prossimo che mi parla di bolgia del San Paolo consiglio un giretto qui a Kiev. Errico Novi ne parla in quest’articolo. In questa Europa League, da tanti bistrattata, abbiamo visto che cosa voglia dire tifare all’estero e al confronto ne siamo usciti impalliditi. Noi, come gli altri italiani. È di ieri la polemica tra Montella e i tifosi della Fiorentina che hanno fischiato dopo la sconfitta interna col Siviglia. E immancabilmente la società viola si è schierata coi tifosi, come sbagliarsi. Esiste solo la vittoria. Che resta un qualcosa da esigere, tristemente, in modo arido. Come se non fosse la conclusione di un percorso di crescita che coinvolge tutti. In questo, ahinoi, un ruolo fondamentale in chiave negativa lo svolgono i media che aizzano allo scontro e ormai hanno abdicato alla funzione di raccontare e interpretare lo sport.

Restano tre giornate alla fine del campionato. Si muore dalla voglia di tracciare un bilancio. Di dire che lo spagnolo non è venuto a insegnarci un bel nulla. C’è un gran desiderio di tornare al nostro tran tran, senza palpitazioni, notti insonni, grandi delusioni. Competere vuol dire stare sul filo. Competere non comporta la certezza della vittoria. Ci vuole un fisico bestiale. O ci si può mettere nel palchetto come i nonni del Muppet Show a sbraitare, a lamentarsi e deridere. Certamente più comodo, per carità. Alla lunga noioso, però.
Massimiliano Gallo

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