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Dialogo tra il Ciuccio e Giulietta sull’essere zoccola, il razzismo e la misoginia del calcio

Dialogo tra il Ciuccio e Giulietta sull’essere zoccola, il razzismo e la misoginia del calcio

Non la facevo così auto-ironica. “Vediamoci sulla Domiziana” mi dice, forse per mettermi in imbarazzo. Ci riesce. Giulietta Capuleti non è una gatta morta. Non riconosco in lei l’interpretazione di Olivia Hussey, l’attrice di Zeffirelli che con dolcezza la portò al cinema nel ’68. Qui, ferma, dritta davanti a me Giulietta mi dà adesso l’idea di un’Asia Argento venuta dal Cinquecento. “Hai problemi a parlare sulla Domiziana?”, quasi mi sfida. “Sono una zoccola o no?”. Il mio dialogo sul calcio con il simbolo di Verona comincia così. 

Ciuccio: “Insomma ho capito che non hai voglia di girarci intorno e che dobbiamo affrontare subito l’argomento del famoso striscione. Immaginavo che ci saremmo arrivati, ma almeno potevamo arrivarci piano piano”. 

Giulietta: “Se sono quel che dite che sono, non puoi pretendere da me troppe delicatezze, troppi preliminari. O no?”. 

(Forse qui si rende conto di essere stata troppo aggressiva nel suo approccio. Si ritrae, è il solo momento del nostro incontro in cui abbasserà la sguardo). 

Giulietta: “Sono così. Non mi nascondo. Sono come mi vedi. Il mio solo amore è nato dal mio solo odio, no? È una frase che mi fanno ripetere da poco più di quattro secoli. Ho accettato il tuo invito volentieri, sono venuta qui soprattutto perché ho un tarlo che dura da venti anni e devo liberarmene. Devo chiederti come sia possibile che un popolo naturalmente ironico come quello napoletano abbia giudicato davvero divertente, per così tanto tempo, uno striscione simile?”.

Ciuccio: “Be’, intanto non devi dimenticare il contesto. A metà anni ’80 il calcio italiano era terrorizzato dalla violenza. A febbraio ’84 un tifoso triestino muore dopo incidenti con la polizia, nella partita con l’Udinese. A settembre dello stesso anno c’è la morte di Fonghessi, milanista accoltellato per sbaglio da un altro ultrà rossonero che lo aveva scambiato per uno della Cremonese. Se riguardi le immagini, negli stadi italiani, anche nelle curve, spuntavano spesso striscioni con la scritta: “No alla violenza”. In questo quadro, nel maggio del 1985, arriva la tragedia dell’Heysel. Poi sarebbero arrivati Nazzareno Filippini, Antonio De Falchi, l’atroce ferimento di Ivan Dall’Oglio. Era molto alta la soglia della sensibilità: la violenza era sopratutto quella fisica. Ricorderai che quando i tifosi napoletani venivano insultati al Nord, da colera a terremotati, neppure se ne parlava. Non esisteva l’ondata di indignazione che si è sollevata negli ultimi due anni e che ha portato alle norme sulla discriminazione territoriale, poi ritirate. La cosa colpì perché, al razzismo veronese, il San Paolo non rispondeva con violenza. Ma con l’ironia verso un personaggio, diciamolo, che non esiste”. 

Giulietta: “Vedi, sono due le cose che ti contesto. Intanto, non sono carne ma io esisto. Esisto, eccome. Sono un simbolo. Sono una figura. Credi che i simboli non siano reali? E poi tu la chiami ironia. La chiamate ironia da trenta anni. Io la chiamo violenza verbale. Non si può dare impunemente della prostituta a una donna che prostituta non è. Io ne sono delusa. Ne sono delusa due volte perché di mezzo c’è Napoli, che ha nella sua letteratura un’opera meravigliosa dedicata all’umanità di una puttana. Penso a Filumena Marturano, una figura di donna che non si può non amare. Cosa proveresti, Ciuccio, nel vedere in uno stadio, in una curva italiana, lo striscione: “Filumena Marturano è una puttana”? In quel caso la cosa sarebbe addirittura vera. Eppure io arriverei a capire se tu provassi comunque un moto di stizza. La cosa curiosa è che una delle poche tifoserie con cui siete gemellati, quella del Genoa, è legata a sua volta a doppio filo con Fabrizio De Andrè, che ha dedicato a Bocca di Rosa una delle sue canzoni più belle e che verso le puttane non aveva un atteggiamento offensivo né ostile. Sentire usare proprio da voi la parola zoccola come un’arma, mi offende. E figurati quanto poi sono stizzita, io che puttana non sono. Mi sono data all’amore di Romeo, non alla ginnastica di Mercuzio. Sono io che ho permesso a Romeo di baciarmi, io l’ho perdonato dopo l’assassinio di Tebaldo e lo ho riscattato. Diceva Tolstoj che la donna di strada è acqua sporca, fetida, che si offre a coloro per i quali la sete è più forte della ripugnanza. Cosa c’è di ripugnante nella mia storia?”. 

Ciuccio: “Ma proprio per questo motivo, Giulietta, quello striscione era davvero geniale. Sovvertiva la semantica dell’essere, se mi concedi questa formula. È così chiaro che tu non sei una zoccola da poterci permettere di affermarlo in modo categorico solo per il gusto dell’eccesso gratuito. Gratuito e per fortuna innocuo. Non dovresti risentirtene”.

Giulietta: “Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo. Questo è ciò che Shakespeare mi fa dire. Mi fa prendere le distanze dal significante per mettere l’accento sul significato. Ma fuori dalla tragedia lasciami dire ciò che davvero penso. Intanto, decido io su cosa risentirmi e su cosa no. Secondo: quella parola che nello striscione accostate alla mia persona è uno dei tanti elementi misogini che il calcio ha introdotto nella sua quotidianità. Negli stadi si dà liberamente del figlio di puttana a chiunque. Negli stadi si canta a un avversario “tua moglie sta scopando”. L’arbitro è per definizione cornuto. La donna è solo questo. Una zoccola. Non è cambiato molto in questi anni. Il trattamento riservato alla donna rimane lo stesso. Li conosco bene i discorsi che fate sulle donne che seguono il calcio come giornaliste”. 

Ciuccio: “Giulietta, non per vigliaccheria, ma io non faccio nessun discorso del genere e soprattutto sento di non appartenere, tecnicamente, neppure all’universo degli uomini che mi pare tu adesso stia mettendo sotto accusa. A me pare semmai che dovremmo occuparci più seriamente di un altro tipo di hate speech. Dovremo occuparci degli insulti razzisti che Verona fa piovere sui napoletani da decenni. Nel tuo accorato discorso non ce ne è traccia. Sono curioso di sapere cosa ne pensi. Cosa pensi tu di venti anni di leghismo?”.

Giulietta: “Se tu non ti senti responsabile di ciò che fa e dice e pensa l’uomo medio, perché credi che io debba sentirmi parte di una porzione di comunità che assume atteggiamenti che io condanno? Per me parla la mia storia. Sono scappata di casa, dal mio clan e dalla mia parte per amore di un uomo che apparteneva all’altra metà del campo. Con le azioni, non con le parole, ho dimostrato di saper andare oltre i pregiudizi, oltre gli schieramenti, con il coraggio di una donna libera, lo stesso coraggio che non si rinnega neppure facendo la puttana. Quei cori contro Napoli e i napoletani sono odiosi. Io non ho nessuna difficoltà a dirlo. Vorrei che tu adesso avessi la forza e l’onestà per staccarti dalla tua parte e restituirmi la natura del mio personaggio, vorrei che tu affermassi ora guardandomi negli occhi che Giulietta non è una zoccola. Credo che sia arrivato il momento giusto per questa cosa”. 

Ciuccio: “Ma certo che non lo sei. Lo sapevano benissimo anche quelli che ebbero l’idea dello striscione. Diceva Victor Hugo che la libertà comincia dall’ironia”. 

Giulietta: “E allora? Questo cosa c’entra?”.

Ciuccio: “Niente, però volevo infilare una citazione dentro il mio discorso perché fa fare sempre bella figura”. 

Giulietta: “Lo vedi? Non hai la mia stessa forza. Tu non lasceresti mai la tua casata per scappare con una nemica della tua famiglia. Tu non sei veramente libero. Non te ne faccio una colpa. Non sei tenuto a esserlo. Ma non darmi lezioni sull’ironia e sulla satira, se è vero che nascono dalla libertà di pensiero”.

Ciuccio: “Tu sei scappata dalla tua parte per amore. Per amore scapperei anche io dalla mia”.

Giulietta: “Allora dovresti farlo. Dovresti prendere le distanze dalle risate che la tua parte ancora si fa per quel vecchio striscione. Dovresti scappare per amore del rispetto, per amore del rispetto dei simboli, quale anche tu sei”. 

Ciuccio: “Se la cosa può aiutare a stabilire rapporti civili fra le nostre parti, fra le nostre famiglie, ecco… io… oggi… qui… trenta anni dopo quello striscione… ti chiedo scusa. Ti chiedo profondamente scusa per quell’insulto. Ti chiedo scusa per averti dato della puttana”. 

Giulietta: “E io ti chiedo scusa, a nome della parte a cui mi assimilate, delle parole infami che vi vengono rivolte e che purtroppo, anche con le scuse mie e dei tanti che la pensano come me, continueranno a esservi rivolte”. 

(Qui è seguito un lungo sguardo, occhi negli occhi, che non vi so descrivere e che mi ha profondamente toccato. Poi Giulietta mi ha risvegliato).

Giulietta: “Sono 100 euro”. 

Ciuccio: “Come?”.

Giulietta: “Sono 100 euro. Per un’ora prendo 100 euro”. 

Senza parole, ho messo zampa al portafogli e ho tirato fuori due banconote da 50 consegnandole nelle sue mani.

Giulietta: “Oh ciuccio, ciuccio, perché sei tu il Ciuccio? Rinnega Napoli e rifiuta il tuo nome. O se non lo vuoi, tienilo pure e giura di amarmi, e io non sarò più una veronese”. 

Giulietta si è fatta una risata, ha gettato i soldi per aria e si è fatta riaccompagnare alla stazione.
Il Ciuccio

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