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Nella Supernapoli di Gambardella il San Paolo non si tocca: «È il nostro Colosseo, va rimossa quella oscena copertura e prevederei abitazioni»

Nella Supernapoli di Gambardella il San Paolo non si tocca: «È il nostro Colosseo, va rimossa quella oscena copertura e prevederei abitazioni»

«L’utopia è un diritto democratico, se un popolo non esercita il diritto all’utopia è fottuto». Sta in queste parole forti di Cherubino Gambardella, architetto e professore di Progettazione alla Seconda Università di Napoli, il senso del suo progetto Supernapoli, che è un atto d’amore, ma anche uno schiaffo in faccia a questa città, che è la sua città, nel tentativo di risvegliarla dal torpore rinunciatario in cui sembra sprofondare. Supernapoli è un manifesto visionario che invita a nutrire il sogno libero di un presente possibile, senza temere imperfezioni e sgrammaticature, senza preoccuparsi di vincoli, piani regolatori, lacci e lacciuoli che mortificano ogni felicità progettuale.

È per questo sogno che Cherubino Gambardella ha portato avanti per due anni un lavoro collettivo con i suoi studenti, invitandoli a progettare sopra quella esistente una nuova città fantastica che lui poi ha disegnato creando una serie di quadrerie fatte di collage espressivi e felici, esposte in questi giorni alla Triennale di Milano su invito di Alberto Ferlenga, responsabile per l’architettura dell’Istituzione milanese.

Da Scampia alla Sanità, da Forcella al Porto, dai Quartieri Spagnoli al lungomare, tutto è stato rivisitato attraverso innesti, sovrastrutture, ponti pensili, percorsi pedonali sospesi in una “inattesa e ambiziosa opera di sabotaggio dei luoghi comuni”.

Gambardella racconta questa sua Supernapoli in una sala della Triennale così piena da costringere molti del pubblico ad ascoltare il dibattito in piedi. Poco male, perché l’architetto napoletano è travolgente quando parla, la sua diventa una narrazione del fantastico che non può non incantare. Accanto a lui sul palco gli oratori sono divisi in due gruppi: ci sono i milanesi (Stefano Boeri, Cino Zucchi, Luca Molinari, Giacomo Papi) e i napoletani (Francesco Jodice e Carmine Piscopo) e l’idea è quella di confrontarsi sulla possibilità di trovare nuovi modi di guardare alle città partendo proprio da questo esperimento di Gambardella, che qui a Milano diventa “il” Cherubino.

Tutti sono d’accordo sull’urgenza di tornare a produrre visioni in libertà, senza sensi di colpa. Ma se Milano è nella sua essenza profondamente borromaica e austera, Napoli deve invece ritrovare la forza di essere sfrontata, ancora più del solito in questo tempo dove le idee sono fiaccate da una crisi che si alimenta a sua volta dal sopore delle idee, in un circolo vizioso mortifero.

«Napoli deve riuscire a ridare epos al suo presente e l’epos lo dai solo attraverso la collettività», incalza Gambardella.

È anche per questo motivo che uno dei progetti di Supernapoli riguarda lo stadio San Paolo, al centro in questi anni di accesi dibattiti sulla sua struttura e sulla possibilità di spostarlo altrove.

«Lo stadio di Napoli era uno dei più belli mai immaginati, fatto da Carlo Cocchia nel 1960, una specie di Colosseo di cemento», mi dice l’architetto napoletano. «Non solo: è stato teatro di avvenimenti mitici come la prima presentazione ufficiale di Diego Maradona il 5 luglio del 1984. Io ero tra gli 80 mila andati a salutarlo, lo stadio era pieno e lui si mise a fare quel palleggio indimenticabile. È stata una delle emozioni astratte più forti di quel luogo. Quell’uomo solo in mezzo al campo ci stava promettendo la felicità, proprio come deve fare l’architettura. Solo che l’architettura la deve mantenere nei secoli, mentre il calcio ha il pregio di poter mantenere la felicità per pochi mesi o in pochi secondi. Basta un gol o un palleggio perfetto. In quel momento univi il palleggio di Maradona e un meraviglioso stadio ancora senza copertura: l’emozione era stata potentissima».

Poi arrivarono i Mondiali del 90 e allo stadio fu aggiunta una copertura secondo le regole dettate dalla Fifa. «Peccato che il San Paolo fu coperto nel modo più brutto, stupido e osceno sia possibile fare: mettendoci un’orrenda costruzione a ponteggio che ti fa perdere completamente il fascino del travone di San Siro ma anche quello che veniva dal poter vedere il cielo azzurro sopra di te e insieme sopra la tua squadra». Sarebbe meglio fare uno stadio nuovo, allora? Magari in un’altra zona della città, meno centrale… «Io sono contrarissimo al trasferimento del San Paolo! In quello stadio hanno giocato Maradona, Omar Sivori, Sergio Clerici, detto El Gringo, José Dirceu, detto El Piroga, è un luogo pieno di epos, se lo si spostasse si avrebbe magari uno stadio tecnicamente perfetto ma senz’anima». La soluzione, allora? Sta dentro Supernapoli, che propone ancora una volta di lasciarsi andare all’utopia, al sogno di un presente possibile, sostenuto dal lavoro degli studenti, che hanno proposto dieci progetti lavorando un anno intero sulla questione dello stadio. «Partendo dalle loro proposte, io ho disegnato la visione di un San Paolo recuperato eliminando tutte quelle orribili cose che hanno aggiunto per Italia90, riportandolo alla purezza originaria e facendo solo una copertura molto semplice che permetta di vedere di nuovo questo Colosseo straordinario. Intorno allo stadio poi metterei anche una serie di attività, compresa persino la residenza. Perché un vero tifoso del Napoli, diciamolo, vorrebbe abitarlo il suo stadio. Quello della Juve è un po’ ridicolo per me perché ha solo i centri commerciali e il cinema, tutti luoghi del loisir, mentre il calcio è uno sport più serio, e lo stadio non è un luogo dello spettacolo, ma un luogo dove si fanno male e lottano, dove escono fuori gli istinti». Ecco l’epos, appunto.
Marta Dore

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