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La morte di Salvatore e del senso di responsabilità

È morto, a 14 anni, per un calcinaccio caduto dalla Galleria Umberto, luogo storico di Napoli. È una morte che toglie il respiro, quella di Salvatore. Perché non si può morire a 14 anni. Perché non si può morire così, per una passeggiata con gli amici. Perché non si può morire per un calcinaccio che si stacca da un palazzo storico e ti uccide. C’è poco da dire. C’è da accertare le responsabilità. C’è da capire di chi sia l’incuria. Sarà importante sotto il profilo penale. In questi giorni è andato in scena un assurdo e imbarazzante valzer di responsabilità che ci ha tristemente portato con la memoria all’episodio di “Così parlò Bellavista” del civico 157 bis: il negozio del genero di Bellavista che non sapeva bene a chi dover pagare il racket. C’è Napoli e c’è l’Italia in questo balbettio e palleggio di responsabilità. C’è, su tutto e tutti, l’assenza di visione dell’assieme; l’assenza di una coscienza collettiva che dovrebbe spingere, innanzitutto, a risolvere un problema che potrebbe avere, come ha avuto, ripercussioni gravi. Altrove – almeno crediamo, speriamo – si risolve innanzitutto l’emergenza. E poi si va alla ricerca della responsabilità individuale. In questo è ovvio che un ruolo guida debba averlo lo Stato, in questo caso il Comune, o anche chi è preposto alla tutela dei beni architettonici. Mentre sui quotidiani andava in scena l’assurda querelle sull’eventuale rimozione (o permanenza) dei baffi di scogli a via Caracciolo, nessuno si era posto il problema di un cornicione nel centro di Napoli da cui due mesi fa erano cadute altre pietre. Il senso civico dovrebbe spingerci a sentire come pressante l’esigenza di sanare una frattura. Non indurci a una corsa a ritirarsi dalle proprie responsabilità. È questa mentalità, questo atteggiamento, che distingue una società che si percepisce dinamica e tesa al continuo miglioramento da una che invece ha come unico orizzonte possibile il galleggiamento e che non riuscrà mai a guardare in prospettiva. Come è avvenuto a Napoli. Ora, per carità, la magistraura probabilmente accerterà le responsabilità. Di cui, immaginiamo, i genitori di Salvatore non sapranno che cosa farsene. È il senso della comunità che non riusciamo ad avere. Quella sensazione che ci fa bruciare come una ferita, che non ci fa dormire la notte: la consapevolezza che quell’albero in via Aniello Falcone possa un giorno cadere, o che la Galleria Umberto possa presto tornare a perdere calcinacci. Non avvertiamo questa urgenza sulla nostra pelle. Avvertiamo unicamente la necessità di dire che non è colpa nostra. Ed è doppiamente triste. Massimiliano Gallo

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