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Il Napoli ha l’allenatore per diventare grande. Mancano due ingredienti

L’onda della delusione per l’insuccesso del Napoli in Europa League è arrivata (e come poteva essere altrimenti?) anche tra chi tiene per il Napoli e che ha visto la partita a Milano, in tv, lontano 800 km. dal calore del San Paolo.

E proprio a seguito di questa delusione è partita una riflessione sul tema: il Napoli, al di là dei risultati congiunturali, sta gettando le basi per essere una squadra stabilmente forte, stabilmente competitiva in Italia e in Europa?

Al momento, guardando ai risultati prossimi, nella peggiore delle ipotesi, il Napoli sembrerebbe destinato ad arrivare terzo in campionato. Risultato tutt’altro che disprezzabile, risultato che per intenderci i miei amici interisti e milanisti vivono come un sogno irrealizzabile quest’anno per le loro squadre.

Nella migliore il Napoli chiuderebbe la stagione con “un titulo”, come dice Mou, e con l’accesso diretto alla fase a gironi della Champions.

Due ipotesi comunque lusinghiere, la seconda ovviamente più della prima.

Ma il valore maggiore o minore dei risultati stagionali si pesa in modo diverso se si collocano all’interno di un percorso progressivo di consolidamento e sviluppo o come fatti episodici che possono ripetersi o non, stagione per stagione, in base ad elementi di casualità. Quando si dice “il Napoli non può vincere una volta ogni 25 anni” si fa appunto riferimento alla necessità che il Napoli si doti di una strategia adeguata a mantenere un ruolo di primo piano con continuità e successi crescenti.

Quindi la domanda è: il Napoli sta attuando una strategia di progressivo consolidamento e sviluppo?

Possiamo provare a dare una risposta esaminando, uno per uno, quali sono i tre ingredienti principali per una strategia efficace. In fondo, questi ingredienti per una società calcistica non sono molto dissimili da quelli richiesti per le altre società di altri comparti. A parità di mezzi finanziari, le differenze tra una società e un’altra sono dati, a gioco lungo, appunto da questi tre ingredienti.

1) Una guida tecnica lungimirante: che sappia cioè tenere la società a livello dei migliori standard della concorrenza (o addirittura un passo avanti) per quanto riguarda la realizzazione del prodotto e la ricerca di innovazione. Nel caso del calcio questo riguarda aspetti come la preparazione atletica, la tutela sanitaria del patrimonio calciatori, la loro motivazione, il modulo di gioco… Il Napoli, con la guida di Benitez, sembra messo bene sotto questo aspetto.

È sugli altri due invece che sembra carente. Vediamoli.
2) Una organizzazione societaria manageriale, efficace ed efficiente: dove tutte le funzioni chiave siano coperte da manager capaci, dotati della necessaria autonomia e chiamati a rispondere in base ai risultati. Questo non sembra il caso del Napoli che dispone invece di una struttura padronale con bassi margini di autonomia e responsabilità dei (pochi) dirigenti che ne compongono la struttura. È sintomatico al riguardo che il Consiglio di Amministrazione del Napoli, il Cda con il più alto stipendio pro capite di tutta la serie A, sia composto per quattro quinti dal proprietario e da suoi familiari (il quinto è un amico di famiglia). Con una totale assenza nell’organo di indirizzo della società di manager competenti in materia calcistica. E non vale obiettare che il problema della natura padronale dell’organizzazione del Napoli lo accomuna a buona parte delle squadre italiane. In questa materia non vale il principio mal comune mezzo gaudio, questo è anzi uno dei maggiori problemi del calcio italiano nella competizione internazionale. Altrove non è necessariamente così. Qualche nome a caso, per citare “piccoli club” dove le cose sono in modo diverso: Barcellona, Bayern Monaco, Real Madrid. È la buona organizzazione che fa la buona società, non viceversa.

3) Una forte identità/senso di appartenenza del team. Nel caso del calcio, il team è innanzitutto composto dai calciatori. Difficile, se non impossibile, che questo aspetto sia stabilmente raggiunto se nel team una parte significativa (non necessariamente maggioritaria) non è composta da persone che hanno anche un collegamento territoriale/affettivo con la società. Nel caso del Napoli vuol dire che ci dovrebbe essere una componente significativa del team composta da calciatori che si sentano legati anche in prospettiva alla società. In questa accezione si possono comprendere anche persone non nate in Italia ma che qui hanno messo le loro radici (esempi? Pesaola, Zanetti…). Il caso positivo più clamoroso è dato dall’Athletic Bilbao, dove la componente “appartenenza” è sancita anche dal fatto che tutti i calciatori sono di origine basca (non a caso l’Athletic non è mai retrocesso nella sua storia). Senza arrivare a questo estremo, comunque una componente “identitaria” in una squadra è indispensabile per dare stabilità al team. È vero, tutti i calciatori sono professionisti che possono cambiare squadra, ma in una squadra oltre che calciatori eccellenti come i nostri Reina o Calleijon, che legittimamente prevedono prima o poi un ritorno in Spagna, servono anche calciatori su cui contare in prospettiva per dare continuità nel tempo al team, calciatori che a fine carriera possano poi diventare quadri della società perché vogliono vivere stabilmente con la società e nel luogo in cui la società ha sede, le cosiddette “bandiere”. Ovviamente serve una società che coltivi e offra questa possibile prospettiva. Il Milan in anni passati (il Milan di Maldini, Baresi, Van Basten) era così, poi non ha retto perché è diventato debole nelle altre componenti ( guida tecnica, organizzazione manageriale). Nel Napoli non si vede niente di tutto questo. E non è un problema ascrivibile alla sola società ma a tutto l’ambiente. Un esempio? Hamsik nell’immaginario di molti fino a poco tempo fa doveva essere il “capitano a vita”, ora si discute in cambio di quale altro giocatore venderlo.
Bruno Patierno

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