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Napoli, una città che si riconosce più nei fischi che negli applausi

Fischiamo. Ma cosa? Partiamo da qui, dalla manifestazione di dissenso cui si è abbandonato il San Paolo sabato sera, dopo il 3-3 con l’Udinese. Cerchiamo di capirli questi fischi, anche se lasciano un velo di tristezza addosso, soprattutto a un paio di giorni da una partita decisiva per la qualificazione agli ottavi di Champions. Che peccato andare a giocarla così, con il ricordo fresco del conflitto. Conflitto, dico, perché intorno alla squadra il clima è cambiato. Sono i primi fischi a Benitez, ha scritto qualche giornale. Non starò a sottilizzare sul destinatario. Così come è di Benitez il Napoli quando entusiasma e vince, di Benitez è il Napoli quando viene ricoperto di critiche. Altri hanno parlato di fine della luna di miele (già l’altra settimana per la verità, forse per portarsi avanti con il lavoro), altri ancora (la Gazzetta) si sono spinti a prevedere presto un lancio di pomodori. Insomma, l’ambiente è questo. Il mainstreaming fatto di pubblico, tv, radio, giornali e social network (sì, non fate gli snob, anche i social network si sono adeguati al mainstream), suona ormai questo spartito, così come aveva intonato cantici di miele dopo le prime apparizioni del Napoli.
Io ho un’urgenza però. Sentirmi dire da chi fischia che cosa sta fischiando. Non ho capito se la contestazione è rivolta alla forma o al contenuto, al gesto o alla sostanza, al gioco o alla classifica. Cos’è che non soddisfa? I risultati? Allora non ci siamo. Dopo 15 partite il Napoli è terzo. Se il campionato finisse oggi, il Napoli sarebbe in Champions (ai preliminari) per il secondo anno di fila, che anche se vi fa schifo è una cosa mai successa nella storia di questa squadra. Mai siamo andati in Champions giocandola, sebbene a tanti paia un traguardo miserabile. In più, a 90 minuti dalla fine, siamo in corsa per un posto agli ottavi di finale della Coppa, nel girone in cui sono inserite la capolista del campionato inglese e la squadra vice campione d’Europa, che peraltro al San Paolo abbiamo pure messo sotto. Noi, quelli venuti dalla quarta fascia. E non vi devo ricordare perché eravamo in quarta fascia (invece ve lo ricordo: per aver giocato l’Europa League con le riserve).
Ho detto: se il campionato finisse oggi. Ma oggi non finisce. Ci sono ancora 23 partite da giocare. In mezzo c’è un mercato in cui la squadra potrà riparare certi difetti che sono evidenti, chi lo vuole negare. Ma beati voi allora che avete giornate perfette e vite senza peccati. Nelle squadre di calcio invece funziona in un altro modo. Le squadre hanno delle carenze. Tutte. Spesso restano imperfette per sempre, spesso i difetti vanno e vengono. Ci si mette riparo col tempo se si può, altrimenti ci si convive, comunque si prova ad andare oltre, a raggiungere ugualmente il risultato che si ha nella testa. Eccolo, il punto. Chi fischia in testa che cosa ha? Ha un equivoco. Chi fischia oggi pensava che dopo un secondo posto dovesse venire per forza un primo. Il Napolista ne ha scritto il 4 luglio. “Sarà meglio togliersi subito dalla testa l’idea che il prossimo Napoli debba essere quello giusto per tornare a vincere dopo 23 anni. Magari lo sarà, ma non dovremo pretenderlo da Benitez”.
Il Napolista lo ha scritto non per scarsa fiducia in Benitez o per sgravarlo di responsabilità, ma perché in serie A non va così. Dal dopoguerra a oggi soltanto 17 volte su 68 la squadra arrivata seconda ha vinto il campionato l’anno dopo: il 25% dei casi. Nell’era del calcio in pay-tv quella percentuale scende al 20% (4 volte su 20). Non è sbagliato chiedere lo scudetto, sbagliato è pretenderlo. Lo ripeto oggi, aggiungendo che in sé 8 punti di distacco non sono una distanza incolmabile: li avevamo anche l’anno scorso e li azzerammo la notte in cui battemmo il Catania. I fischi, questi fischi, non hanno un centro del loro pensiero. Non hanno un centro di gravità. Poggiano sul vuoto, su cave di tufo. Come la città. Questi fischi sono un tratto di noi e della nostra identità. Nei fischi ci riconosciamo meglio che negli applausi. I fischi parlano di noi, del disprezzo che abbiamo per noi stessi. Forse riconosciamo il Napoli come parte di noi solo quando il Napoli fa schifo. Gianluca Pardo, in un commento a un articolo qui sul Napolista, ha scritto: “Sarà che dalla squadra pretendiamo quello che la città non riesce a darci”. Perciò Benitez è finito nella morsa di un ambiente che non gli perdona la diserzione dalle cofecchie, dai salottini e dalle fritture di pesce, dai caffè presi sotto al braccio, da confidenze e mummuliamienti. Eco e sponda sono nella grande stampa milanese, che tiene legata al dito per lo stesso motivo la sua esperienza interista.
Però per dare sostanza al vuoto servono ragionamenti alati. E allora la tattica, il modulo, l’integralismo. C’è fra i critici uno strabismo francamente incomprensibile. La Juve è grande squadra se sa vincere pure nelle sue giornate meno brillanti, com’è capitato con il Verona, con il Chievo, con il Torino, l’ultima volta con l’Udinese. Noi no, per noi questo ragionamento non vale. Per noi, solo per noi, entra in ballo la categoria del merito. Non servirà obiettarmi che la Juve soffre ma vince, perché noi stiamo storcendo il naso pure di fronte ai tre punti presi in casa del Milan (dopo 27 anni), in casa della Fiorentina (dove la Juve ha perso) e in casa della Lazio (dopo 8 anni). Non mi è chiaro però quale sia il parametro del bel gioco, la soglia oggettiva sopra la quale scatterebbe l’approvazione. Il possesso palla? Ci fa orrore. I tiri in porta? E vabbè, ma i gol ce li mangiamo. Le poche occasioni concesse agli avversari? Certo, ma quelli erano una squadra di morti. Basterebbe dirsi che siamo una squadra che cerca una via. Siamo in ricostruzione. Senza per questo rinunciare a inseguire obiettivi che siano i più ambiziosi possibili, “gli obiettivi massimi” che qualcuno arriva a rimproverare a Benitez. Non c’è nulla di sensato nel fischiare il Napoli. Questo Napoli. Esattamente come non fu sensato fischiare l’anno scorso la squadra dopo lo 0-0 con la Sampdoria. Bruno Barilli, saggista e musicologo, diceva che il pubblico non deve comandare, perché pubblico è sinonimo di abitudine, ma al pubblico deve essere consentito di fischiare, perché tra i fischi nascono i capolavori.
Il Ciuccio

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