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Quale complesso d’inferiorità, è stato un Napoli cinico

Lo volevamo cinico, e cinico ce l’hanno dato. Così cinico che neppure ce ne accorgiamo. Non lo abbiamo riconosciuto come tale nella sera della sua massima espressione di cinismo, non se n’è accorto neanche Mazzarri. Serviva non perdere in casa del Milan per portargli via il secondo posto, i milioni garantiti della Champions che significano prospettive migliori di mercato e un’estate normale, senza preliminari. Serviva non perdere, ci siamo riusciti, ma ci è parso poco, ci è parso amaro. Ci è parsa un’altra di quelle partite che raccontano di una crescita incompiuta, di un cammino spezzato. Come se invece non ci sia abbastanza cinismo (cit. Treccani: “sprezzo verso gli ideali, le convenzioni, le istituzioni”) nel lasciarsi alle spalle la squadra italiana più vincente della storia. No. Avremmo preferito batterla. Anche se non serviva.
Proprio non ce la facciamo a rinunciare all’amore per lo svolazzo, per il ghirigoro, per il superfluo, per il barocco. L’amore per lo sfizio. Non c’è niente di male, questi siamo noi, è il retaggio della storia, è dna, chi lo rinnega: ma non prendiamo lo sfizio come un indicatore di crescita. Perché non è battendo le grandi che si misurano i progressi di una squadra che da anni gioca insieme. Una grande la batti anche con un episodio, una grande la batti anche se sei il Chievo. La crescita di un gruppo che da anni gioca assieme si misura semmai con le vittorie disinvolte e sistematiche su chi è più piccolo. È quello il segno vero che si è diventati grandi: quando i piccoli vogliono batterti, quando per loro è la serata che vale un anno. Giocare a Milano o a Torino senza complesso d’inferiorità significa giocare senza l’ossessione che quello sia il luogo migliore per godere di una vittoria, senza l’idea che siamo andati lì per toglierci uno sfizio. Giocare alla pari è accettare l’idea che finisca pari, che siamo pari. Lo sfizio dev’essere del Siena che vuole battere il Napoli, non del Napoli che vuole battere il Milan. È questo il vero complesso d’inferorità. Se basta un pari per ottenere un grande traguardo, e un pari viene, allora è una grande serata. Soprattutto se stavolta Mazzarri l’ha gestita in modo nuovo, sparigliando e forse perfino rischiando (Calaiò e non El Kaddouri: ci è andata bene).
I gruppi di lavoro che partono da valori medi e progrediscono piano fino allo scudetto non arrivano a quel traguardo vincendo gli scontri diretti. La Fiorentina del ’69 vinse il titolo facendo due volte 0-0 col Milan campione uscente. Il Cagliari di Gigi Riva nel ’70 ci riuscì senza mai vincere a Milano e a Torino, e senza mai battere in casa Juve Inter e Milan. E la Roma di Liedholm 1983? Due volte battuta dalla Juve di Trapattoni, eppure fu scudetto. ll Verona di Bagnoli 1985 fece 4 pareggi su 4 con le milanesi, e a Torino mica vinse. Persino la Roma 2001 di Capello non vinse a Milano e fece due pareggi su 2 con la Juve. Del resto, aritmeticamente è quasi un’ovvietà. Ci sono più punti a disposizione contro squadre più deboli di te che contro le big. Non mi invento niente, è una vecchia teoria proprio di Capello: vince il campionato chi regala meno punti alle piccole. La maturità è questa. Se vogliamo rimproverare al Napoli di non essere diventato grande, dobbiamo farlo non per i mancati successi con Juve e Milan, ma per la sconfitta a Verona e a Bergamo, per l’1-1 col Torino, lo 0-0 con la Samp. Sei punti almeno, altro che. Se poi vogliamo un Napoli che batta anche Juve e Milan senza che si tratti di uno sfizio sporadico, non stiamo chiedendo il completamento di un processo di crescita, gli stiamo chiedendo una cosa diversa. Di diventare di un’altra dimensione. E la cosa non riguarda più il campo, non i giocatori e neppure l’allenatore.
Il Ciuccio

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