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Milan-Napoli per noi, che viviamo a Busto Arsizio

Faceva caldo quella mattina. Ricordo come se fosse ieri. Era una domenica di metà giugno di qualche anno fa, sette per la precisione. La macchina caricata all’inverosimile, mio padre che s’affretta a caricare le ultime buste e don Antonio del garage che rassegnato mi chiede: “…allora te ne vai?”. In quel momento la mia mente dà vita a un flashback in stile Quentin Tarantino. Avevo assillato tutti nelle settimane precedenti: “Me ne vado a Milano… me ne vado a Milano… uè, hai capito? Io me ne vado a Milano!”, urlavo a chiunque mi conoscesse, con il tono di quello che nella vita ce l’ha fatta ad andarsene da Napoli, che per me è da sempre delizia per gli occhi ma croce nel cuore.

Il posto di lavoro c’era, impiegato nell’amministrazione finanziaria, come tanti meridionali che tentano con successo la via del concorso pubblico. La casa pure, un piccolo bilocale buono per gli inizi, tanto prima o poi un appartamentino in centro me lo compro. La ragazza, oggi moglie, di lì a poco mi avrebbe seguito. Sì, ma dove? Per esigenze logistiche scelsi di vivere a Busto Arsizio, un paese equidistante da Milano e dall’aeroporto di Malpensa (imparare a viaggiare in aereo era uno dei miei primi obiettivi), lassù, dove la Lega Nord è una realtà che si vive e si respira giorno per giorno. Un giorno, più di tutti, respirai quell’aria. Da sportellista dei servizi al contribuente, si presenta davanti a me un distinto signore sulla sessantina, vestito in jeans, camicia e giacchettino leggero color marroncino. Mi chiede svariate informazioni, alle quali rispondo suscitando la sua approvazione. Alla fine si alza, mi tende la mano per stringermela e mi chiede: “Con chi ho parlato?”, e io: “Esposito, dovesse servire chieda pure di me”, incassando il suo annuire convinto. I colleghi mi spiegarono che io, Esposito, avevo appena dato informazioni a Francesco Speroni, europarlamentare leghista.

Per uno strano paradosso che ancor oggi non riesco a spiegare, l’ostacolo maggiore alla mia integrazione non sono stati i settentrionali, i polentoni come li chiama mio padre. Contemporaneamente faccio due scoperte sensazionali. La prima è che i “terroni” sono un’invenzione dei meridionali omologati, quelli cioè che per dimostrare di essersi inseriti nella “civiltà del nord” gettano tanta di quella me…lma sul sud e sugli altri meridionali che non ci si crede. La seconda scoperta è che la maggior parte dei lombardi purosangue ama Napoli e il sud e fa uso abituale di droghe come la mozzarella, la pastiera, il casatiello e i friarielli (che per convenzione qui si chiamano cime di rapa “Napoli”). In tutte le pizzerie, ammesso che un biscotto sporco di passata di pomodoro cotto in un forno elettrico possa chiamarsi pizza, la specialità è salsiccia e “frijarijelli”. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere perché tutti storpino una così bella parola in quel modo.

Passano i mesi estivi. Luglio e agosto vanno via in un batter d’occhio. E’ tempo di campionato. Quell’anno il Napoli era in serie B, e nell’animo dei tifosi serpeggiavano l’entusiasmo per una campagna acquisti roboante (Bucchi, De Zerbi, Dalla Bona, Maldonado e Paolo Cannavaro) e allo stesso tempo la preoccupazione per la contemporanea presenza in cadetteria di Juve e Genoa. Da lì in poi, fortunatamente, l’escalation dell’equipe del professor De Laurentiis è stata veloce ed inesorabile. Serie A in un anno, poi Uefa, infine Champions League. Man mano che passava il tempo, la considerazione per la mia squadra cresceva nei discorsi di chi “non tiene al Napoli” (da queste parti si dice così). Non dimenticherò mai la prima volta a San Siro, perdemmo 5-2 contro il Milan del giovanotto Pato, ma ci divertimmo tantissimo nel settore ospiti. C’era di tutto lì. Napoletani che s’erano imbarcati in un viaggio di 11 ore, milanesi di origine partenopea che ormai parlavano con la cadenza nordica, amici, semplici conoscenti. Mi sono sentito come un italo americano ad Ellis Island negli anni della guerra.

Molti anni prima del film Benvenuti al Sud, mi sono trovato al centro di discorsi del tipo “…ma mò che stai a Milano tifi un po’ per l’Inter e per il Milan?”, oppure “…ma mò voti la Lega?”, e ancora, quella che da sempre mi piace di più: “…ma mò a tuo figlio ‘o miett nomm Ambrogio?” (considerato pure che il patrono di Busto Arsizio è San Giovanni Battista e non Sant’Ambrogio). Al pari dei nostri eroi azzurri, anche io mi sono reso protagonista di una piccola scalata verso il successo. Sono partito, giovane e in un angolino, a meritarmi simpatia e stima attraverso nomignoli tipo “pocho”, “marekiaro” e “matador”. Poi il Napoli cresceva e, con esso, l’antipatia dei vari tifosi strisciati, che iniziavano a sentire il dolore tipico dei piedi pestati. Via i nomignoli, dentro considerazioni come “…eh, vi lamentate della Juve, poi ieri avete rubato la partita, è chiaro che vogliono farvi vincere!”. Per tanti potrebbe sembrare un’offesa, per me non lo è. Ho pensato a come si è vinto in Italia negli ultimi vent’anni e una sola risposta sono riuscito a darmi: finalmente iniziamo a contare qualcosa! E questo contare qualcosa oggi riguarda anche me che, dopo un lungo e certosino lavoro con il lanternino tipo Diogene, sono riuscito a creare intorno a me un gruppo di persone in grado di conservare e ostentare la più bella delle virtù, quella che porta dentro di sé la maglia azzurra. A vederlo oggi, quell’ufficio, sembra di stare all’Asl Napoli 1, o ad un qualunque ufficio anagrafe del Comune di Napoli.

La scena tipica del lunedì mattina è quella di una decina di persone tutte impegnate a bere il caffè, la bevanda principe a Napoli, quella che ha il potere di riscaldarti d’inverno, quando fuori fa un freddo “milanese”, e svegliarti d’estate, quando il caldo afoso della Pianura Padana ti abbatte che è una meraviglia. Io di solito vesto i panni dell’anti-allenatore e pro-giocatori. Poi ci sono quelli che odiano la società a prescindere, quelli che Mannini e Savini non sono stati capiti, e quelli, più attempati, che “quando stavo io a Napoli, ‘o ggioverì andavamo a Soccavo a vedere a Diego che palleggiava, e per il buon umore che metteva a tutti quanti, uno di noi a turno si sentiva sempre in dovere di offrire la pizza agli altri… che tempi!”. E tutti quanti in coro: “Te si fatt viecchio!”

L’ultimo capitolo della mia storia si svolge a fine maggio del 2012. Devo tornare a Napoli, sento un bisogno irrefrenabile di riabbracciare la mia città. Altre volte ci sono tornato, ci mancherebbe, ma questa volta è speciale. Ho lasciato la mia amata Partenope all’imbrunire delle vicende fallimentari, con il Napoli appena riapprodato in serie B dopo due anni di terza serie forzata. Ora torno perché il sogno del trionfo potrebbe materializzarsi di nuovo. E’ vero ciò che dicono i saputoni nordici, cioè che vincere una Coppa Italia non è come vincere uno scudetto, tantomeno una Champions, ma per me l’emozione allo stato puro non esiste, c’è solo la dimensione che la persona le dà. Ed ecco che, come nella più bella delle favole, alle undici passate di quella sera trionfale, chiamo un mio collega (e amico), fortunatamente juventino ma sfortunatamente meridionale:
“Ma che mi chiami a fare? Pare cosa avete vinto…”
“Ho chiamato per congratularmi della bella partita, lascio alla mia città ogni commento”, gli dissi rivolgendo il telefonino alle urla, ai clacson e ai petardi.
Non gli ho mai chiesto quali emozioni dia ad uno juventino parlare con Piazza Trieste e Trento invasa dalla gioia di migliaia di persone. Forse glielo chiederò quando vinceremo il terzo scudetto.
Paolo Esposito

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