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Carmelo Bene e il linguaggio dei tifosi: «Chewing-gum usato»

Il museo Pan dedica una mostra a Carmelo Bene, al suo rapporto con Napoli e con il sud. Qui sotto, allora, uno stralcio dell’intervista pubblicata nel giugno 1982 dall’Unità, a firma Vittorio Sermonti (sì, il dantista), in cui Carmelo Bene chiedeva che ai Mondiali con la nazionale ci andasse tutto il Bari. Con Castellini del Napoli in porta.

“Per come si sono ridotti questi italiani, oggi non giocano più, fanno solo sport: sportaccio: apologia di reato… L’anima, l’anima, l’anima (senti i telecronisti delle private) “ci hanno messo l’anima!”. Il sentimento e la buona volontà dovrebbero essere banditi dai campi di gioco. Niente. Non m’interessa vederli scendere in campo, non m’interessa vederli giocare, non hanno nemmeno un minimo di Grazia sufficiente, perché alla Grazia non danno accesso né dottrina né astuzia né, tanto meno, i buoni sentimenti”.

“Mai un’azione di prima come la intendo io, sempre a stoppare, a litigare con la palla, la zona è finta, tutto si risolve nel corpo a corpo. Li hai mai visti “lasciarsi giocare”, “farsi giocare dal pallone”, essere il pallone che li gioca? Niente. Un altro mondo. Sono ragionieri, piccoli esperti, ognuno abbarbicato alle competenze del suo ruoletto: mediano di spinta semifluidificante monopiede… Il giocatore è grande, come l’attore, se giocando fa altro da quello che fa. Altrimenti sono affari suoi”.

“Ma li vedi i nostri che stanno sempre lì a brucare il prato con gli occhi? Ti faccio una domanda: in Italia oggi quanti giocano a testa alta? Due: Franco Baresi, un vero libero, libero in tutti i sensi, che potrebbe diventare uno dei più grandi al mondo… Baresi del Milan e Antognoni, che però purtroppo è il campione dell’ovvio, dove lui manda la palla c’è sempre un compagno di squadra e cinque avversari pronti a levargliela”.

“Sono imbarazzato per i 22 che vanno al Mondiale. Personalmente, manderei il Bari. Al completo. E’ una squadra che si diverte, si avventura. Antologizzare è la soluzione peggiore: oltre tutto questi azzurri tapini insieme fan pochissime partite, e non giocano mai (ogni volta c’è una buona ragione per rapinare il gollettino e assassinarti dalla noia). D’altronde, la sinfonica non l’abbiamo: mandiamo l’orchestrina” (…)

“Ma perché andiamo? Che ci andiamo a fare? E se non se ne può proprio fare a meno, ripeto, mandiamo il Bari. Tutt’al più con Castellini in porta. Visto che è il più grande portiere del mondo, se lui non si vergogna troppo, sarebbe il caso di pagargli il viaggio” (…)

“Liedholm, Jessie Carver, Erbstein: da sempre gli stranieri ci sono maestri. Perfino il nostro brutto giochetto all’italiana lo abbiamo imparato da uno straniero: ma almeno Herrera lo faceva bene, ero uno spettacolo, un giovedì grasso, un’orgia di non-gioco. E vinceva. Che non è poco”. (…)

“Io tifo sempre per chi gioca meglio, per chi fa succedere qualcosa in quell’ora e mezza. Tifo, poi… Mi infastidisce la parola. Capisco il tifo del bambino: dopo, chi meno è cresciuto – o forse chi è cresciuto meglio – si porta dietro quell’amore strano per cosa mai vista, e sentita raccontare da Nicolò Carosio. E capisco il tifo indigeno: la squadra della tua città ti piace, perché ci giocano quelli della tua città: la Pro Vercelli, l’Ambrosiana Inter, oggi più o meno il Bari. Sennò che te ne frega? Un anno Collovati è l’uomo di Dio, l’anno dopo passa all’Udinese e tu lo fischi… Vuol dire che sei un imbecille. Odio quel tifo lì, fra giovanotti, per la rissa, fanno fumi colorati, guardano indietro. Poi ne riparlano tutta la settimana, in gergo, parlando parole sputate da altri. La loro lingua è chewing-gum usato. Causa efficiente del nostro cattivo calcio è, a mio avviso, l’assenza della lingua italiana. Ma su questo ci sarebbe da fare un paio di volumi. Hai sonno. Ciao”.
Carmelo Bene

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