E se rendessimo il racconto di Napoli accessibile anche agli altri?

Sono giorni un po’ particolari. Vedete? Anche il Napolista langue. Perché quell’incendio di Bagnoli ci ha bruciato il cuore, le emozioni, la gioia che si prova a parlare di pallone. Che è cultura. Ma è soprattutto illusione: Claudio Velardi e tutti i “rinnegati” calcistici, che in fondo sono una variante dell’esilio, questo dovrebbero capire. Che […]

Sono giorni un po’ particolari. Vedete? Anche il Napolista langue. Perché quell’incendio di Bagnoli ci ha bruciato il cuore, le emozioni, la gioia che si prova a parlare di pallone. Che è cultura. Ma è soprattutto illusione: Claudio Velardi e tutti i “rinnegati” calcistici, che in fondo sono una variante dell’esilio, questo dovrebbero capire. Che tifare per il Napoli, a casa o nel mondo, è l’illusione di essere i figli di una città normale, civile, dove si fa impresa, si hanno risultati e si difende un po’ di orgoglio. A volte, per lunghi mesi, quell’illusione funziona. E’ il pallone come forma del cuore, quando non è gonfio solo di dolore, perché poi il calcio è sempre illusione, e a parità di illusioni meglio le nostre che quelle degli americani con lo sceicco.
E invece oggi, è come se con le fiamme di Bagnoli si fosse sciolto anche il pallone: a leggere le notizie dalla squadra, provo un sentimento di fastidio. La sensazione, generalizzata in questa città, di guardare un film in una lingua originale a te sconosciuta.
Anche questa volta abbiamo fatto della nostra tragedia una tragedia solo nostra. Ancora una volta ci accompagna il sorriso amaro degli altri, per la grandezza incomprensibile del nostro non esserci nel mondo. Una delle forme di questa inesistenza è la ennesima riedizione della polemica tra chi se ne è andato e chi è rimasto.
No, non mi sono offeso per le accuse di “viltà”. Anche quel tema è parte della commedia, sono battute che stanno nel copione. Qualcuno deve interpretarle. Resta chi vuole e può restare, va via chi è inquieto e/o svantaggiato. E siamo tutti figli della stessa madre.
Però qui serve un’operazione di laicità giornalistica: decrittiamo questo dibattito e rendiamolo accessibile a chiunque, nel mondo, abbia qualcosa da dire. Rompiamo il codice nel quale ci mandiamo a quel paese da decenni e decenni, generazione dopo generazione, perché anche quello è un linguaggio nascosto del potere (o dei poteri nascosti, tanti in questa città). Impariamo a rispondere al Langone di turno con dati, fatti, prove, cose.
Quello che ci aspetta è un compito comune: rendere questa città leggibile, attingibile dagli strumenti della conoscenza comuni a tutti. Fuori da ogni emergenza. Anche da quella giornalistica (e narrativa). Anche da quella degli obblighi morali (“restare”, “rinnegare”).
Il giorno dopo l’incendio di Bagnoli nessun giornale ha saputo tirar fuori, nemmeno in sede locale, un racconto di ciò accadeva dentro, attorno a quel luogo. Ipotesi letterarie, allusioni d’autore. Nessun contesto soddisfacente. Ecco perché l’attacco di un Langone arriva come un getto di alcol puro sulla ferita. Perché è un provocatore che urla le cose che noi taciamo, mettendole al servizio di una provocazione imbecille, ma astuta.
Dunque nessuno sa niente di quel rogo? Nessuno ha scavato “prima”? Eppure se c’è uno specifico campano-napoletano, che funziona da 40 anni, è che bravi giornalisti si formano e fanno carriera scavando nelle diverse melme criminali ed economiche della regione. E invece, niente: “siamo sotto attacco”. La paranoia è sempre l’ultimo rifugio degli impotenti.
Allora, mi chiederete, che vuoi fare? Rendiamo questa città normale anche nel racconto del proprio male. Il primo passo è scavare dentro meschinità, interessi, assunzioni clientelari, investimenti mancati, beghe di consigli di amministrazione, nomine dubbie, velleità e provincialismi. Fateci caso, c’è questo in ogni vicenda napoletana. Ma raccontarlo significa attraversare la storia recente della città, dispiacere a politici vivi e vegeti, scomodare responsabilità recenti. Significa scrivere senza passare prima dai carabinieri o dal magistrato. Ci vorrebbero giornalisti liberi da ogni condizionamento e capisco bene che se si è pagati 5 o 10 euro a pezzo si vive dentro il condizionatore. Questa è la città di Peppe D’Avanzo. Ma studiarne il “metodo”? Capire che cosa e come fece diventare Peppe un grande giornalista?
Vittorio Zambardino

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