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Lavezzi non ha tradito, abbiamo fatto tutto noi

E’ il de profundis della Napoli lavezziana. Il popolo azzurro sta portando il Pocho verso il terzo e definitivo grado di giudizio con conseguente condanna capitale. Il capo di imputazione è quello di spezzare il sogno delle bandiere nel calcio, l’immaginare un futuro altrove, lo sminuire l’amore che la piazza gli ha dedicato. Infine: il tradimento.

Ma Lavezzi è innocente. Non si è mai prestato alla facile retorica del calcio, non è mai stato di quei calciatori idoli buoni per tutte le piazze (stile Luca Toni, per intenderci), dell’isteria della città ha sempre dato feedback di disagio. Non ha mai nascosto un certo pragmatismo. Se c’è qualcosa che ha sempre provato ad essere è intellettualmente onesto. In una parola: se oggi noi ci sentiamo delusi, lui non ha mai alimentato la nostra illusione.

Facciamo un esempio. Nel settembre 2007 Lavezzi andò in via Chiatamone, presso la sede del Mattino, per un’intervista dai lettori. Il Napoli veniva dalla vittoria per 5 a 0 allo stadio Friuli, match nel quale il Pocho aveva dato dimostrazione dei suoi numeri. Era la sua prima uscita da star dopo un’estate nella quale si era guardato a lui con un po’ di perplessità. Di domande alle quali era facile rispondere da marpione ne ricevette diverse. Prendiamone una a caso: “Consideri la partita di Udine la tua migliore prestazione in carriera?” (1 goal e 2 assist nella prima vittoria del Napoli nella massima serie dopo 6 stagioni – “ma sì, Napoli mi dà una carica eccezionale, ho vinto uno scudetto in Argentina ma una sola partita qui mi infiamma di più… ”). “No. La mia migliore partita di sempre rimane River Plate 1 –  San Lorenzo 2”. Né più né meno.

Del paragone con Diego, poi, Lavezzi non si è mai fatto bello, anzi l’ha sempre dribblato. Piuttosto sono stati i napoletani a cucirglielo addosso.

Non è difficile capire il perché. Il Pocho ha incarnato il riscatto della Napoli del pallone: riscatto da anni di marginalità calcistica, dalle serie minori, dalla mestizia di una piazza che da un decennio si nutriva unicamente di nostalgia del passato.

E poi Lavezzi era il primo giocatore con un bagaglio tecnico di un certo livello a indossare la casacca azzurra dopo almeno un decennio. Con lui era arrivato anche Hamsik, che di qualità ne ha forse anche di più. Ma quella di Marek è classe mitteleuropea, compassata. Lavezzi, invece, è il vero asso sudamericano: caotico, a volte sconclusionato? Sì, ma divertente e appassionante, pura linfa per una tifoseria che in Schwoch aveva avuto l’ultimo funambolo. Quindi è stato lui il simbolo del ritorno.

Ma è stato un processo sentimentale tutto dei napoletani. Una proiezione messianica: in un argentino credemmo, con un argentino rinasciamo. Lui è stato l’uomo giusto al momento giusto, ma gli è capitato.

Soffriremo per la sua partenza, ne sentiremo la mancanza, proveremo, soprattutto se rimane in Italia, astio e gelosia. Ma non  gli si può rinfacciare questa scelta: Lavezzi, in fin dei conti, è un timido, uno che la grinta la metteva in campo, ma poi spariva. Intervistato a marzo da Sportweek, nel suo momento migliore, ha mantenuto i piedi per terra: “Si sente napoletano?”. “No, e lo dico per rispetto dei napoletani”.

Noi gli abbiamo costruito attorno la nostra epica, ma lui il capopopolo non l’ha mai voluto fare. C’è una cosa ha sempre detto, dal 2007 a oggi: “mi impegnerò perché i napoletani si divertano”. Non si può dire che non l’abbia fatto. Per questo è innocente.
Roberto Procaccini

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