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Gli ingaggi crescono con i ricavi, e il San Paolo frutta

Il 2010-11, stagione del ritorno alla vendita centralizzata, ha visto consumarsi una piccola rivoluzione all’interno della Serie A: un riversamento di denaro dalle grandi alle medio-piccole. Prendiamo i fatturati e confrontiamoli con quelli dell’anno precedente (depurandoli dei costi della mutualità interna, che ora non c’è più). Scopriamo che la Juventus è passata da 211,5 a 156,1 milioni, l’Inter da 230,2 a 217,3, il Milan da 233,3 a 227,7. E cosa è successo al resto della truppa? Il Napoli è salito da 92,7 a 122,4 milioni, l’Udinese da 37,4 a 54,5, il Bologna da 35,3 a 45,7. Performance opposte che, in buone parte, sono dovute a una ripartizione più equa dei proventi tv. Non è un caso che, rispetto al 2009-10, le squadre in attivo siano raddoppiate: da quattro a otto. In territorio positivo, oltre alle retrocesse Bari e Brescia, ecco Lazio, Palermo, Catania, Napoli, Udinese e Parma.
Cinque anni consecutivi di profitti, quasi 29 milioni messi in cassaforte. De Laurentiis ha penato solo in C, prima di svoltare in territorio positivo. Gli stipendi della squadra promossa in Champions League gravavano solo per il 42% sul fatturato: un primato. Sì, rispetto al 2009-10, il costo del personale è cresciuto parecchio (da 38,7 a 51,7 milioni) ma è stato bilanciato dall’esplosione delle entrate (+18, plusvalenze escluse). Il Napoli è un club in espansione: nel 2010-11 +6,3 milioni al botteghino (al netto della mutualità), + 6,3 milioni dagli sponsor e una vagonata di soldi dalle tv. Zero debiti con le banche.

Marco Iaria
La Gazzetta dello Sport

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