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Ero juventino, Diego mi ha fatto rinsavire

Ognuno ha uno scheletro nascosto nel proprio armadio, qualcosa di cui non va fiero e preferisce sotterrare nel cassetto della memoria. C’è chi ha tradito la fiducia di qualcuno a cui teneva, chi ha truffato, imbrogliato, rubato.

Io sono stato juventino, e nella mia visione delle cose questa le batte tutte.

Avevo nove anni ed ero pazzo di Platini. Le Roy, Michel. Classe, eleganza, personalità, tecnica. Era il mio idolo. Nonostante la giovane età, ero spesso oggetto di scherno di mio padre e del suo gruppo di amici. Abbonato nel settore distinti da quando ero praticamente in fasce, seguivo le sorti della mia Juventus attaccato alla radiolina ed alle voci di Enrico Ameri e Sandro Ciotti.

Ho dei ricordi nitidi di quel 3 novembre 1985. La pioggia battente, il freddo, la fila interminabile per entrare (allora come adesso), gli ombrelli aperti, la mia sciarpa bianconera nascosta sotto il cappotto, i manifesti funebri con la scritta “Dopo una lunga attesa, si è serenamente spenta La vecchia Signora. Ne danno il triste annuncio i tifosi partenopei”. La Juve era primissima in classifica, con addirittura 8 vittorie su 8 incontri disputati. Ma nel Napoli c’era Lui, L’Immenso, l’uomo che avrebbe fatto  vacillare il mio credo, l’uomo che mi avrebbe regalato le più grandi soddisfazioni calcistiche della mia vita.

Poco ricordo della partita, fino al momento della punizione. La barriera a cinque metri, le proteste degli azzurri per la distanza non rispettata, un’attesa lunghissima e la mia percezione, lucida, di quello che sarebbe accaduto un istante dopo. Tocco di Pecci, Eraldo proprio lui, e quel tiro. Una parabola che sfidò le leggi della fisica, un tocco di interno sinistro su un terreno ai limiti dell’impraticabilità, una traiettoria che anche a rivederla all’infinito fai fatica a credere possibile. Tacconi che quasi sbatte la testa sul pallo, la rete che si gonfia e il San Paolo che viene giù.

Fui preso, abbracciato, strattonato, fatto saltare in aria da gente pazza di felicità, mentre lacrime di disperazione si mischiavano alla pioggia. Facevo parte di una bellissima festa ma non ne ero protagonista. Per fortuna rinsavii abbastanza presto. Un paio di anni, il tempo del ritiro di Platini e che l’amore per i colori azzurri trovasse spazio definitivo nel mio cuore.

Adesso, a distanza di 26 anni, la Juventus è il nemico da battere, l’odiato rivale. Lavoro in terra lombarda, ma i gobbi sono tantissimi e dopo anni di umiliazioni stanno uscendo allo scoperto, ansiosi di prendersi rivincite e togliersi parecchi sassolini. Domenica sera vedrò la partita tra loro, in minoranza, come quel 3 novembre 1985. E spero che a ‘sto giro toccherà a loro piangere…

Roberto Bratti

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