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Da Vieri a Seedorf, quando il campione è facile bersaglio dei furti

Lo scudetto dell’ingenuità pare tocchi a Bobo Vieri. Quando ancora era un mito sulla sponda nerazzurra dei Navigli, si fermò col Porsche Cayenne d’ordinanza davanti a un bar di Porta Venezia per l’happy hour e consegnò serafico le chiavi al posteggiatore che, ahilui, era fasullo come un Abatantuono vestito da interista: «Vai tranquillo, bomber, te la parcheggio io», e ciao macchina da bauscia. Più di recente c’è cascato pure Lúcio, a Porta Romana, vero pollo carioca con la sua Bmw. Ma Vieri è recidivo, e sei anni dopo gli hanno fatto fuori un Audemars Piguet da sedicimila euro col vecchio trucco dello specchietto (colpetto al retrovisore, la vittima tira fuori il braccio per sistemarlo e, tac, ciao orologio da nababbo). La banda che gli aveva soffiato il macchinone è stata poi sgominata, dopo aver fatto sparire pure la fuoriserie di Shevchenko, perché i predoni del pallone, si sa, sono trasversali, una curva buona per tutte le bandiere: la maglia del campione non interessa, a meno che non la si possa vendere al mercato nero.
Scippati e rapinati, raggirati e derubati, c’è da mettere in campo due squadre coi fiocchi, da Eto’o a Brehme, da Zalayeta a Menez, da Ronaldinho a Sneijder. Se il calcio è una «catena di miracoli », come diceva Cesare Maldini in odio al razionalismo di Sacchi, si tira appresso anche una bella gang di miracolati: razziatori e ladroni che con i golden boy della pedata vanno sempre a colpo sicuro, non rischiando mai di trovarsi in pugno una manciata di spiccioli. Il più intoccabile pareva Maradona, cor’e Napule intera, Malanapoli inclusa: quando dal caveau d’una banca gli portarono via venti orologi e il pallone d’oro, si mossero uomini «di rispetto» per fargli riavere il maltolto (tardi per il pallone, già fuso in lingotti). E la visita dei ladri a Posillipo in casa della sorella Maria, nell’89, è stata interpretata dai diegologi più come un messaggio oscuro che come un banale furto. Vai a sapere. Del resto sotto il Vesuvio i clan uno li immagina anche nella ricetta della pizza margherita, e infatti tra i blogger partenopei c’è chi si domanda adesso se non ci sia un «attacco camorristico» dietro questo pressing criminale sui campioni dell’era De Laurentiis: prima il colpo in casa Cavani, poi l’auto rapinata alla moglie di Hamsik, infine l’assalto a mano armata all’orologio di Lady Lavezzi che, tweettando il suo sdegno («Napoli città di m…»), ha scatenato il putiferio delle ultime ore. «Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore», scrive Eduardo Galeano: «giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo; durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese». E chissà se in fondo all’anima di qualche predone non ci sia anche questo, la voglia di continuare il sogno: appropriarsi della roba del campione per essere un po’ lui, come rubare le armi ad Achille. Più banalmente, certo, i ragazzoni dorati del pallone restano bersagli facili: riconoscibili quanto star del cinema e farciti di quattrini non meno d’un bancomat. A sud di Roma, tra Palocco, Axa e Infernetto, le ville dei giocatori giallorossi sono per tradizione più assediate di Fort Apache. E se Totti se l’è cavata con un parabrezza spaccato, la linea difensiva di Luis Enrique è stata travolta in tre giorni: prima Juan e poi Heinze hanno dovuto capitolare davanti ai ladri che hanno portato via soldi,macchine, gioielli. A Mexès, quando giocava a Roma, è andata peggio: due volte la sua famiglia è stata faccia a faccia coi banditi; a luglio di tre anni fa gli portarono via la Mercedes con la figlioletta Eva che dormiva sul sedile posteriore, salvo lasciarla quattro strade più in là dopo essersene accorti.
C’è chi reagisce. Il mitico Sebino Nela, pur passati da un pezzo gli anta, s’è fatto cento metri sprintati come con Liedholm in panchina per riacciuffare e prendere a sganassoni un romeno che cercava di sgraffignargli la macchina nel garage del Torrino. Batistuta, cui ai tempi della Fiorentina avevano soffiato le preziose scarpette nello spogliatoio dello stadio di Reggello, a Roma s’era munito di fucile (da caccia); come Samuel, del resto: perché non sempre basta essere theWall per murare i cattivi fuori da un’enclave dorata ma troppo vicina alla disperazione delle borgate. Dovevano essere laziali quelli che nel 2008 portarono via a Marco Delvecchio la coppa dello scudetto e le medaglie della nazionale: «Per voi non valgono niente, per me una vita, ridatemele», fu l’inutile supplica. Del resto Ronaldinho ha salvato il pallone d’oro, nella villa del Varesotto che era stata dell’arcimilanista Tognazzi, solo perché la cassaforte ha resistito fino all’arrivo dei vigilantes. Seedorf, assaltato due volte a Robecco sul Naviglio, ha semplicemente deciso di traslocare. Vucinic aveva appena traslocato, da Roma a Torino: il benvenuto in bianconero gliel’hanno dato strappandogli dal polso un Patek Philippe da ventimila euro mentre andava ad allenarsi al campo di Vinovo. Sono tempi di ferro. Nessun rispetto per la nostra innocenza perduta, per gli eroi delle nostre notti tricolori. Per Zoff, pestato in faccia col calcio della pistola e buttato a terra sotto gli occhi della moglie. O per Bruno Conti, derubato nella villa di Nettuno degli ori del Mundial e persino d’una medaglietta con la foto del papà morto da poco. Si mobilitarono per lui le radio giallorosse. E, si sussurra, addirittura un pezzo di mala, non richiesta. Tutto inutile. «Un dolore immenso », ricorda Bruno. Dicono che una volta rubarono la macchina a Pelé: gliela restituirono appena capito il sacrilegio. Ma in quel mondo in bianco e nero, l’Olimpo era ancora una cosa seria.
Goffredo Buccini (Corriere della Sera)

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