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Mazzarri: Non inferiore né a Mou né a Guardiola

Questo titolo — «L’intruso» — non gli piacerà. Perché Walter Mazzarri, dopo due giri d’Italia (prima in parastinchi e poi in panchina), nell’attico del campionato non si è introdotto indebitamente. E perché lassù, nell’aria rarefatta, dove i suoi polmoni da fumatore possono finalmente ossigenarsi («Quante sigarette al giorno? Ho perso il conto. Quando non sono contento del risultato passo la notte in bianco, a fumare. Mi fido di pochissime persone: diciamo che la sigaretta è l’amica più fedele»), si sente perfettamente a suo agio. Tecnico preparatissimo e uomo intelligente, 49 anni immolati al pallone («Passione enorme: sono diventato personaggio come conseguenza del mio lavoro e a volte non lo vivo benissimo, scappo dalla notorietà»), Mazzarri ama le sfide. E le provocazioni.
Lavezzi dice che il segreto del Napoli secondo in A è in panchina: allude a lei o all’amuleto che tiene in tasca?

«Chi crede nella professionalità totale, nel lavoro e nel sacrificio, non ha amuleti. Certo se un rito funziona, anche se profondamente non ci credi, lo ripeti. Tanto non costa nulla. Ma non mi affido alla scaramanzia, anche se ogni napoletano vorrebbe regalarmi un portafortuna. In tasca non ho più posto».
Il presidente De Laurentiis sostiene che Mazzarri sia il valore aggiunto della squadra. Non è che poi si monta la testa?

«Chiariamo: per arrivare a certi livelli in un mondo così difficile devi avere carattere e credere in te stesso. A me interessa la stima di chi stimo. Con gli altri mi chiudo a riccio e posso risultare presuntuoso o antipatico. Va bene così. Più il presidente mi loda, più mi motiva. Il rischio che io sia appagato non esiste».
Come si diventa uno dei migliori tecnici su piazza partendo da garzone del panificio di papà a San Vincenzo?
«Vengo dalla cultura del lavoro. Lavorando quasi 24 ore al giorno, papà dava l’esempio ai suoi operai. È la politica del fare ad avermi portato dove sono».
Quindici mesi per far decollare il Napoli in Italia e in Europa sono un piccolo record.
«Quando si dice: si vede la mano dell’allenatore. Senza falsa modestia. Ho dato alla squadra organizzazione e gioco, ma un tecnico moderno deve lavorare a 360°. Seguo i giocatori ovunque, anche nella vita privata. Tutto parte dal cervello, che deve essere sereno. Quando arrivai, nell’ottobre 2009, parlai privatamente con ciascun calciatore della rosa. Siamo uomini. L’onestà è alla base dei rapporti: i ragazzi hanno capito che ho le idee chiare e che possono fidarsi. Se il messaggio arriva, il gioco è fatto».
De Laurentiis cita spesso il modello Barça. Quindi lei studia da Pep Guardiola?

«Con tutto il rispetto per Guardiola, come esperienza penso di non essere inferiore. L’esempio mi piace perché funziona. Ci stiamo provando, con i nostri mezzi e le nostre idee. Ma il progetto è appena partito, ci vorrà tempo».
La salvezza della Reggina (2006-2007) con 15 punti di penalizzazione resta la sua impresa più notevole, finora?

«A Reggio lo chiamano il “sesto scudetto”. Io penso che l’importanza di un risultato sia sempre proporzionale al budget e alla rosa che alleni. L’Acireale tirato su da ultimo in C, il Livorno in A dopo 55 anni: li considero i miei fiori all’occhiello…».
Una macchia da cancellare?

«Aver perso con la Samp per un rigore la Coppa Italia contro la Lazio».
Però da qui a dire che «in proporzione ho vinto più io di Mourinho» ce ne passa…

«Il calcio non è scienza esatta però i risultati sono quantificabili: si può capire quanto incide un allenatore. Una cosa è l’Acireale, un’altra l’Inter o il Real. Lo ribadisco: in base ai parametri mercato-budget-rosa credo di aver ottenuto risultati non inferiori né a Mourinho né a nessun altro. È matematica».
È vero che se ne andò dalla Samp per Cassano?
«Ci sono cose che un tecnico non deve spiegare. Però con me, in due anni, Cassano si è comportato bene: è un merito che vorrei vedermi riconosciuto. E dopo Samp-Napoli 1-2 è venuto sul pullman a farmi i complimenti».
«Gomorra» l’ha letto?
«No, conosco i contenuti. Ma non sono in grado di dire quanto la camorra incida in città. Quando parli del sociale, se non ne sai abbastanza non sei credibile. E qui mi fermo».
La monnezza, però, la vede.
«Undici anni fa, quando a Napoli ero il vice di Ulivieri, il problema non esisteva. Deve essere successo qualcosa in chi ci governa, nel frattempo. E parlo del Paese Italia, non di Napoli».
I capelli sembrano un suo vezzo.
«Il mio barbiere è vicino a Empoli, ma non sempre il lunedì riesco ad andare per una spuntatina. Se li vedete lunghi è perché non ho fatto in tempo a tagliarli, non per trascuratezza. I capelli fanno parte del mio modo di essere: mi piacciono curati».
Restare in camicia bianca sottozero è rito o machismo?
«Ho una temperatura di base vicina ai 37°. È come avere sempre la febbre. Ho caldo. Per muovermi come voglio, per sentirmi libero, mi levo la giacca. A Torino, con la Juve, passammo da 0-2 a 3-2. Da allora è diventato il segnale della riscossa».
È più autorevole o autoritario?
«Autorevole».
Preciso o maniacale?
«Il termine giusto è pignolo. Ma so capire quando i giocatori arrivano alla saturazione».
Il suo guru? «Non ne ho. Ho studiato Guidolin, Ulivieri, Hodgson all’Inter, Ancelotti… A un corso mi insegnarono che un allenatore è un artista. È vero. E a me piace non essere uguale a nessuno». Che Inter troverà a San Siro?
«La peggiore: rimotivata da Leonardo, un bravo tecnico che mi piace; ricompattata, pur senza Eto’o e Sneijder, dal recupero di uomini importanti».
Se il Napoli batte l’Inter e la Juve è da scudetto?
«Se avessi e se fossi è il patrimonio dei fessi, diciamo in Toscana. E io, fesso, non sono».
Gaia Piccardi Corriere della Sera

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