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Grazie a Lavezzi siamo
nel post-maradonismo

Il fondamentale manoscritto di Osvaldo Soriano intitolato “Pensare con i piedi” dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il calcio è soprattutto filosofia. Esiste una metafisica del pallone ed è per questo che la diatriba sulla natura ontologica del Pocho “Lavezzi” è la pietra angolare su cui poggia il piccolo edificio del Napolista. Max ha ragione: quante litigate sul tatuato Ezequiel in questi anni. Gallo, zemaniano di ferro che non crede nei singoli ma nel collettivo, ha sempre colto al volo ogni occasione per criticare il nuovo anarchico argentino. Al punto che non è riuscito a trattenere l’esultanza quando Diego lo ha escluso dalla lista per i mondiali. Primo errore: non si esulta contro un giocatore della propria squadra. A me sarebbe piaciuto vedere il Pocho in Sudafrica e la decisione di Maradona probabilmente mi farà ricredere sulla scelta di tifare Argentina. Ma questo è un altro discorso. La seconda questione posta dall’invettiva di Max riguarda la presunta “normalità” di Lavezzi: è un un buon giocatore, scrive. Qui il dissenso è ancora più profondo. Ovviamente Lavezzi non è Maradona e non lo sarà mai. Eppure ha già un enorme merito agli occhi di noi tifosi: ci ha fatto uscire dal tunnel baudelairiano della nostalgia infelice per el Pibe de oro, uno spleen senza tempo, per approdare finalmente a una serena memoria storica condivisa. Insomma, il passaggio decisivo dal maradonismo al post-maradonismo. Tutto questo è riconducibile a un preciso momento. Poco dopo le dieci di sera del 18 ottobre del 2008. Era il trentaquattresimo del secondo tempo di Napoli-Juve. Hamsik agganciò la sfera e tentò di chiudere il triangolo con Maggio, posizionato sul limite sinistro dell’area di rigore bianconera. Knezevic intercettò il pallone, facendolo però carambolare sulle cosce di Ezequiel Ivan Lavezzi. Quattro passi e gol. Di destro. Due a uno. Lì, el Pocho ha legato il suo destino al nostro. Perché un gol decisivo alla Juve miscela sempre cronaca e fato. Quel giorno ho capito che avevo realizzato la mia “Bolognina” di tifoso. Una piccola svolta per non vivere più nell’eternità del rimpianto. E i fatti sinora mi danno ragione: Lavezzi è un giocatore completo. Segna con entrambi i piedi e ha uno scatto fulminante. E nel disastroso girone di ritorno dell’ultimo anno di Reja, fu il solo a salvarsi, dando sempre l’anima. Per me è l’unico leader possibile di questo Napoli. La rivalità atavica tra stabiesi e sorrentini mi impedisce di vederlo in Quagliarella e Hamsik è troppo freddo per esserlo. Ma torniamo alla filosofia, per sgombrare il campo dagli equivoci metafisici. Maradona fu genio, Lavezzi è talento. Come spiega il mio ex coinquilino Giancristiano Desiderio nel suo “Platone e il calcio”, per comprendere Maradona bisogna far ricorso alla logica poetica di Vico, che privilegia le cose alle idee, i sensi alla ragione, la fantasia all’intelletto. Maradona è poesia pura, che precede il ragionamento. E’ il gioco che trascende i giocatori, direbbe Gadamer. Lavezzi, invece, è all’opposto. Quella sua corsa barcollante epperò veloce appartiene all’Idea platonica della Corsa e del Dribbling. E’ un calcio che può essere pensato e che si ripete sotto varie forme, un’identità dell’essere scandita dalle differenze dell’esperienza umana. In pratica, Lavezzi è tra Parmenide e Platone. Maradona no, va oltre l’Iperuranio. E’ appunto la poesia che viene prima della speculazione. Senza saperlo, Diego ha escluso dalla rosa per i mondiali un inconsapevole e convinto eracliteo: tutto corre, anziché scorre. Fabrizio d’Esposito

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