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L’aristocratico Marek
non si deve vendere

Pierpaolo Marino al centro, Hamsik da una parte e Lavezzi dall’altra. E i tifosi che gridavano: “Meritiamo di più”. Cominciò così, tre stagioni fa, la serie A del Napoli, dopo anni di indimenticabile inferno, tra mediocri campionati di B e polverosi campi di C. Ma, si sa, i tifosi non hanno memoria. E se ne vantano pure. Quei due sono diventati l’emblema del Napoli, i giocatori simbolo, indubbiamente i più forti. E, di conseguenza, i più divisivi.
Del Pocho abbiamo parlato, e tanto parleremo ancora. Di Marek, meno. Come se ci fosse una sorta di timore reverenziale per questo ragazzo dell’Est, smilzo, coi capelli a cresta, la dentatura titanica, una tecnica calcistica mostruosa, uno stile di gioco anni Settanta e pause inspiegabili. Non fa mai un tackle, dicono. Ed è vero, tant’è che non è stato ancora ammonito. Si assenta, sembra sparire dal campo, è come se andasse in letargo, e in fondo è vero anche questo. Dovrebbe giocare più dietro, stare nel vivo dell’azione, e forse non è sbagliato.
Eppure nelle solite discussioni da bar, l’ho sempre difeso. Impazzisco per quel suo modo di giocare aristocratico, testa alta, incursioni e tocchi di prima. Senza di lui non avremmo vinto a Torino con la Juventus: qualsiasi altro azzurro (Lavezzi compreso) quel pallone del 3-2 lo avrebbe spedito in curva. Per non parlare del gol al Milan al San Paolo due anni fa. E quello alla Lazio la settimana scorsa. E poi, scusate se è poco, sono tre anni che è il nostro cannoniere. Quest’anno ha già realizzato undici gol. Ha ventidue anni, Marek. E crescerà. Nei tackle e nella continuità. Io non lo venderei mai. E sono convinto che giocherà un grandissimo Mondiale, sporcandosi persino i pantaloncini. Scoprirà che nei contrasti la cresta non gli si scompiglia. E non lo fermeranno più.
Massimiliano Gallo

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