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Così vi smonto punto per punto il mito di Sacchi

Così vi smonto punto per punto il mito di Sacchi

Era poco più di un giochino: cosa sarebbe stato di Sacchi se avesse perso il 1° maggio 1988. La chiamai Ucronia di Arrigo Sacchi, la trovate con un link a fine pagina. Ma quando ieri Rafa Benitez ha ribadito la sua venerazione per l’allenatore di Fusignano, con una bellissima analisi Massimiliano Gallo ha fatto slittare il ragionamento dal gioco alla riflessione, su un piano quasi psicanalitico, chiedendo a se stesso e a tutti noi di fare i conti con quel trauma irrisolto. Io ho deciso di sdraiarmi sul lettino 25 anni dopo aver battuto le mani al Milan che usciva con superiorità oggettiva dal San Paolo (lo feci come tutti, con convinzione, piangendo), e perciò bisognerà occuparsi di Sacchi con toni rigorosi e scientifici. Chiamando le cose con il loro nome.

*** Chi è Arrigo Sacchi “Un grande filosofo da studiare di cui sono già chiare le opere. Il migliore, come Platone o Aristotele. Ma ormai altrettanto immobile”. (Mario Sconcerti) Ai più giovani ricorderò solo che Arrigo Sacchi arriva al Milan nel 1987, a 41 anni, allenatore professionista da cinque, con un curriculum scarno alle spalle. In sostanza ci arriva perché l’anno prima il suo Parma affronta il Milan tre volte, due volte lo batte e un’altra pareggia. Berlusconi se ne invaghisce, lo vuole, lo prende. Intorno si sghignazza. Nascono soprannomi e macchiette. Berlusconi difende la sua geniale intuizione dopo le prime sconfitte, e come finisce si sa. Scudetto vinto nel 1988, Coppa dei Campioni nel 1989 e 1990. A cascata 2 Coppe Intercontinentali e 2 Supercoppe europee. Nel 2007 Arrigo Sacchi viene votato dal Times come miglior allenatore italiano di tutti i tempi. Il suo Milan viene votato dall’Uefa come migliore squadra al mondo di sempre. Il Milan di Sacchi è indicato come uno dei massimi esempi di calcio vincente e spettacolare. Da qui partirò per smontare un impianto di forzature.

*** Quello che non si dice mai delle sue vittorie (e delle sue sconfitte) “Non insegno chimere, le lascio a Sacchi. Icaro volava, ma Icaro era un pirla”.(Giovanni Trapattoni) Ha vinto tutto. Tre parole che pretendono di chiudere il discorso e che invece lo spalancano. Intanto perché l’esaltazione di Sacchi attraverso le vittorie è un paradosso. E’ un’arma impropria. Nessuno più di lui ha parlato di cultura della sconfitta, nessuno più di lui ha predicato la necessità di introdurla nelle vene del calcio italiano. Un lavoro analogo nello sport del nostro Paese l’ha fatto nella pallavolo Velasco. Ma quella cultura della sconfitta senza alibi è stata poi per Sacchi difficile da vivere. A Verona, nel giorno in cui perde lo scudetto ‘90, si fa cacciare. Quello scudetto per i milanisti è ancor oggi lo scudetto della monetina, poco importa a loro che lo 0-2 a tavolino di Bergamo non incise sulla classifica, che il Napoli avrebbe vinto il titolo anche se fosse rimasto lo 0-0 sul campo. Ha vinto tanto, non tutto. Ha vinto solo al Milan. E per la durata di un soffio. Il primo titolo è del 1988, l’ultimo è del 1990. Stop. Basta. Finito. Capello e Lippi hanno vinto di più. Ed anche la qualità delle loro vittorie è stata superiore. Andiamo a vedere.

*** Il contesto delle vittorie “Per Sacchi, semplicemente, l’ avversario non esiste, non è da prendere in considerazione” (Gianni Mura) Quando Sacchi vince le sue due Coppe dei Campioni, basta eliminare 4 avversarie per spingersi in finale. Pare preistoria, lo è. Alla Coppa partecipava solo una squadra per nazione, la vincitrice dello scudetto, la formula prevedeva subito l’eliminazione diretta. I gironi sono iniziati nel ’91, Sacchi non c’era già più. Per vincere una Coppa oggi servono 13 partite, il suo Milan sollevò sei trofei internazionali giocandone 24 in tutto. Quali partite, poi, anche questo va detto. L’Europa su cui Sacchi si impone è un’Europa senza squadre inglesi, messe al bando dopo l’Heysel. Bisogna spiegare ai più giovani che prima dell’esclusione le inglesi avevano giocato 8 finali di Coppa dei Campioni in 9 anni, vincendone sette. Non erano proprio delle statuine. Basti pensare che quando tornano, nel ’96, passano solo tre anni e rivincono loro. Nell’interregno senza le inglesi, si fa un po’ carne di porco. Vanno nell’albo d’oro la Romania (mai vinto prima), il Portogallo (non ci riusciva da 25 anni), l’Olanda (senza titoli da 15 anni), la Francia (mai vinto prima), la Jugoslavia (mai vinto prima). Il Milan si infila in quel vuoto lì. Come, lo vedremo dopo. Per ora dirò che lo fa con un 5-2 ai bulgari del Vitosha e un 4-0 ai finlandesi dell’Helsinki. In finale le sue avversarie sono una rumena e una portoghese. Lo so che adesso qualcuno vorrà tirare fuori il 5-0 in semifinale al Real Madrid. Se qualcuno volesse provarci, sappia che gli ricorderei cos’era quel Real Madrid in Europa. Una comparsa. Una squadra che non vinceva la Coppa da 23 anni. Ventitré. E non andava in finale da otto.

*** Quello che non si dice del modo in cui vinceva “Si diceva che il suo calcio fosse offensivo ma come si fa a chiamare offensivo un calcio basato sul pressing e sul fuorigioco?” (Osvaldo Bagnoli) Vittorie e spettacolo. Questo sale alla mente quando si dice il Milan di Sacchi, ah il Milan di Sacchi. Lui, il massimo ideologo del calcio a zona più puro. In Italia c’erano stati dei presagi negli anni Sessanta con Amaral ed Heriberto Herrera e altri accenni in pieno boom di calcio olandese con Viciani, G.B. Fabbri, Vinicio (a Napoli), Fascetti. Fu Liedholm in realtà a far saltare il tappo della marcatura a uomo e del libero in linea. Il primo scudetto a zona è suo (1983, Roma). Senza Liedholm, Sacchi avrebbe avuto la vita più difficile, forse una vita impossibile. Sacchi non è dunque un inventore. Nessuna delle sue formule era fino in fondo sua. Ammiratore del calcio totale olandese di Michels, porta quel dna nella sua squadra con Rijkaard, Gullit e Van Basten. Totem del calcio offensivo, Sacchi è in realtà prigioniero di un grande paradosso. Il suo Milan era una squadra che badava prima di tutto a difendersi. Nei quattro campionati giocati con lui, non è mai stato il miglior attacco del campionato. Neppure quando lo vinse. Predicava, Sacchi, un calcio molto aggressivo, atletico, di sacrificio. Un calcio in cui pure il numero 10 deve farsi parte del tutto. Eppure, passa per offensivista. Grande avversario ideologico del classico gioco all’italiana, ebbe bisogno di introdurre un lessico nuovo per farsi accettare. Con modalità nuove, con più energia e vigore, anche il suo era di fatto un contro-gioco. Aspettava l’avversario. Non più in difesa, ma decine di metri più avanti. Sul piano teorico se ne vergognava. Il contropiede diventò un’altra parola. Ripartenza. Ma nella sostanza era quello. Un calcio tanto aggressivo non si era mai visto prima: nacque il fallo tattico, il fallo sistematico stile basket, a centrocampo, per fermare il contropiede avversario sul nascere. Mai più, dopo il Milan di Sacchi, il calcio ha consentito un simile uso della forza su un campo di calcio. Una squadra che giocasse come quella, finirebbe le partite in nove, forse in otto. Nel ’90, dopo il mondiale italiano chiuso con pochi gol, la Fifa cambiò le regole: dalla protezione delle difese si passò alla protezione degli attaccanti. Fu introdotto il fallo da ultimo uomo. Cambiò pure Il fuorigioco: un attaccante in linea non sarebbe più stato fermato. Era un’altra delle colonne del gioco del Milan. Insomma, tutti i cardini del gioco che hanno reso grande Sacchi e per i quali viene tuttora celebrato, sono stati via via sconfessati dalla Fifa, bocciati, ritenuti non consoni all’idea di spettacolo (di spettacolo) da offrire e vendere alle pay tv dal ’93. Curioso, no? Alla fine, si può dire che Sacchi vinse nei soli anni in cui le regole e il contesto internazionale favorivano l’unico gioco che lui considerasse valido. Il suo.

*** I violini di Sacchi “Ogni volta che Franco Baresi alzava il braccio in piazza Duomo, il guardalinee sbandierava fino a piazza Navona” (Roberto Beccantini) L’ascesa di Sacchi e i suoi risultati felici furono accompagnati da una straordinaria macchina comunicativa. Da amabili fiancheggiatori. I violini di Milano suonarono tutti per lui. Milano città non vinceva un campionato da otto anni, e ne aveva conquistati appena due nei precedenti 16. Superato lo scetticismo iniziale, Sacchi fu accolto e accompagnato con una certa ansia fideistica. In lui, self-made man, Milano vide la perfetta incarnazione del proprio yuppismo anni Ottanta. Berlusconi scalava l’imprenditoria, riversava nel calcio una quantità di miliardi tale da stravolgere il mercato. Sacchi incrociò i passi di quella abbagliante traiettoria meneghina. La capitale della moda impose una moda. Collezione autunno-inverno 1987, modello Arrigo. Era l’allenatore culturalmente e politicamente più adatto all’era che la città viveva. Non deve essere un caso che Sacchi cadde quando cadde quell’era. La sua uscita di scena si può leggere come l’annuncio dell’arrivo di Tangentopoli. Era stato l’uomo perfetto al tempo del socialismo da bere, le giunte Tognoli-Pillitteri. Come oggi è perfetto per il suo tempo Cesare Prandelli, gemmazione calcistica del veltronismo, ma anche (ma anche) volto ideale di questi giorni di larghe intese. Ma forse sto divagando, o forse no. La macchina comunicativa di Milano, la stessa che indugiò sul labiale di Carmando in Atalanta-Napoli e assai meno sul gol fantasma di Marronaro in Bologna-Milan, si chiedeva a forza di copertine e prime pagine se Gullit fosse più forte di Maradona. Non poteva bastare il Pallone d’oro, che a quei tempi era riservato solo a calciatori europei. Serviva la corona mediatica. Erano anni in cui si invocava il Pallone d’Oro per Franco Baresi, che un mio caro amico definisce il più grande guardalinee italiano di tutti i tempi. Se la Juve aveva imposto la cosiddetta sudditanza psicologica negli anni ’70 all’altezza degli undici metri, il Milan con il braccio alzato di Baresi aveva esteso il concetto e gli aveva dato un baricentro più alto. Baresi, per inciso, è stato un libero dal meraviglioso lancio lungo, dalle imperiose discese palla al piede, ma dalla metà campo in avanti non memorabile. Al contrario di Scirea, per il quale il Pallone d’oro non fu invocato mai.

*** Sacchi ha cambiato il calcio italiano “L’ unica cosa che resterà davvero fra altri trent’ anni, sarà il modo con cui Sacchi ha cambiato le nostre abitudini di allenarci e di pensare il calcio”. (Mario Sconcerti) Ha cambiato il calcio italiano. Questa è la più fuorviante delle affermazioni possibili. Lo avrebbe cambiato, secondo i sacchiani, nella diffusione (oggi si direbbe virale) del gioco a zona e nell’atteggiamento in campo da tenere fuori casa. Dopo Sacchi, si dice, molti hanno cominciato a non accontentarsi del pareggio in trasferta. Ora, bisogna sapere che la serie A dell’epoca era abituata a immaginare una squadra campione d’Italia con 45 punti di media (30 per le 15 vittorie in casa e 15 per i pareggi fuori), e poiché negli anni successivi a Sacchi le vittorie in trasferta sono aumentate, qualcuno pensa di poter attribuire a lui la conversione. La rivoluzione. Può darsi. Ma va detto che nel 1988 il Milan vince il suo campionato con i soliti 45 punti. Sempre gli stessi. Va detto che in trasferta quel Milan ottenne 7 vittorie. Le stesse 7 vittorie che l’anno prima aveva colto in trasferta il Napoli di Maradona. Ora: o Sacchi fu così bravo da imporre la sua influenza anche prima del proprio avvento, oppure l’influenza non c‘è stata. E’ più ragionevole dire che fu l’introduzione dei 3 punti per ogni vittoria (1994/95) a mettere l’attacco al centro del gioco in serie A. Ne è controprova il numero dei gol segnati. Dal 1950 al 1987, per 37 anni, la media gol in serie A è in calo costante: si passa da 3,87 gol a 2,10. La media comincia a risollevarsi a metà anni Novanta. Quando Sacchi non c’è più. Non per la sua influenza, ma per i 3 punti a vittoria. Per questo bisogna accettare l’idea che Sacchi non fu un maestro. Fu un’anomalia. La sua esperienza non divenne metodo. Non incise su un movimento. Anzi in qualche caso portò fuori strada. Portò la Juve a sbattere nel tentativo di trovare il suo Sacchi in Maifredi, andò a sbattere l’Inter che era convinta di averlo individuato in Orrico. Solo il calcio verticale di Zeman, negli anni ’90, ha scavato tracce con la forza dell’utopia. Spingendosi con le sue squadre laddove i calciatori a disposizione consentivano. Ma il calcio di Zeman non era quello di Sacchi. Vi querelerebbe. Zeman, dico.

*** Cosa davvero fece Sacchi “Inténsi, inténsi” (Arrigo Sacchi) Siccome potrei sembrare matto, meglio chiarire che non sto azzerando i meriti di Sacchi. Per glorificare Zeman, poi. Sto solo provando a tenerne la portata dentro un quadro storico. Il merito di Sacchi – grande, enorme – fu quello di offrire un’alternativa di gioco al calcio all’italiana. Diede una nuova impostazione mentale. Di respiro internazionale. Rinnovò il calcio sul concetto di insistenza. Tutto quel che vi ho detto sopra ha fatto di quell’insistenza un sinonimo di qualità. Il guaio di Sacchi furono i sacchiani. Sacchi cambiò la maniera nostra di leggere le formazioni, non più dall’uno all’undici, in fila, Carmignani-Bruscolotti-La Palma, ma la formazione scritta e letta secondo modulo tattico. E’ dopo di lui che parliamo di 4-4-2, 4-3-3 e 5-3-2. Quando la rivoluzione toccò i numeri delle maglie, anche i giornali si adeguarono. Sacchi introdusse un’esasperazione del ritmo e degli schemi. Portò il movimento senza palla, il suo ossessivo controllo. Non della palla, del movimento. Con lui nascono le sedute video. “Bisogna farsi trovare là dove la palla cade”, diceva. Porta una rivoluzione nei metodi di lavoro. Diventa famoso il suo preparatore atletico, Pincolini. E’ un’intera categoria professionale che vede spalancata dinanzi a sé prospettive di lavoro. Sì, Sacchi crea posti di lavoro. Con lui l’allenamento diventa scientifico. Nascono le doppie sedute, in qualche caso triple. Con il suo arrivo, gli atleti degli altri sport smettono di considerare i calciatori dei fannulloni. La sua vera eredità o il suo testamento, non so come dirlo, sta soprattutto qui. Sacchi è il santo protettore dei laureati Isef.

*** Cosa dice oggi Sacchi “Mazzarri? Gioca all’italiana…” (Arrigo Sacchi) La parola che più spesso oggi pronuncia è “io”. La sua esperienza professionale è per lui monoteismo. Crede che l’unico calcio possibile sia il suo. Un fondamentalista. Se fosse juventino, sosterrebbe che gli scudetti sono 32. E’ rimasto coerente con l’idea che aveva di sé, un po’ meno con quel che fu. Oggi che in federcalcio ha un incarico da coordinatore delle squadre nazionali, se la prende con i club che fanno ricorso al mercato estero. Ma quando nel 1988 ci fu la possibilità di portare gli stranieri da due a tre, il Milan si fece capofila della battaglia, tre stranieri tesserati e tutt’e tre li schierava lui. Stesso discorso per le esternazioni ripetute contro la mancanza di didattica tecnica, contro l’indifferenza dei club verso la costruzione dei futuri campioni. Non era sulla tecnica che del resto lui lavorava, Sacchi è stato un insegnante senza risparmio di tattica, l’arma cui si affidava – da ex non giocatore – per ribaltare le gerarchie del talento. Con i giocatori di talento il suo rapporto è stato spesso conflittuale. Uno straordinario Baggio lo salvò dall’eliminazione precoce a Usa ’94, lo stesso Baggio che era stato sostituito quando l’Italia era rimasta in 10 contro la Norvegia, espulsione del portiere Pagliuca, Roby che esce mormorando in diretta tv “questo è pazzo”. Zola non trovò mai con lui lo spazio che meritava in azzurro. La sua nazionale fu quella dei Benarrivo, dei Mussi, degli Apolloni, Massaro, Evani, Fuser. Aveva una grande ammirazione per Maradona, e voglio pure vedere. “Quando giochi contro Maradona è come giocare contro il tempo: sai che prima o poi ti farà gol”. Ma ho il sospetto che lo avrebbe desiderato nella sua squadra solo per poterlo tenere qualche volta in panchina e dimostrare di non averne bisogno.

*** Il sacchismo di Benitez “Fuori da lui, Sacchi non esiste” (Mario Sconcerti) Per tutte le ragioni dette fin qui, il sacchismo non esiste. Al massimo può essere un’aspirazione. Un orizzonte verso il quale tendere. Sacchiani sono stati detti coloro i quali cercano di conquistare gli spazi sul campo. Non me la sento di dire che sia il gioco del Napoli di Benitez, almeno per quanto visto nelle prime due partite. E’ vero che il 4-2-3-1 è un’evoluzione del 4-4-2, è vero che richiede un grande dispendio di energie da parte degli esterni. Ma un conto sono due persone che si somigliano, un altro sono i gemelli. Non c’è difesa alta, il pressing sì, ma nel complesso il Napoli mi pare una squadra più votata al possesso palla rispetto al Milan di Sacchi. E’ una squadra meno ferma nella sua rigidità ideologica, più ibrida, più global, una squadra vorrei dire creola, i tempi del resto sono mutati. La concentrazione e l’applicazione nel lavoro sono uguali. Anche io mi sono concentrato per scrivere questa robaccia, ma ciò non fa di me un sacchiano. L’aneddoto di Benitez che in viaggio di nozze va a Milanello è vero e indicativo di una mentalità. Ma anch’io sono andato in viaggio di nozze a New York, ho voluto vedere le strade dove ha girato Woody Allen, ma non faccio ridere come lui. Perché Benitez chiama Sacchi maestro? Mi sono fatto l’idea che si riveda nel suo perfezionismo. Noi pensiamo alla Spagna com’è oggi e ci pare naturale che Benitez sia emerso da quella scuola tecnica. Ma Benitez ha vinto prima che vincesse la Spagna. Ha portato l’hispanidad in Premier League prima che arrivassero il mondiale, i Silva e i Torres. E’ fatale che si senta uno che ha rotto uno schema nazionale e una pigrizia, che si senta un esportatore di idee. Come Sacchi, mette al centro del suo lavoro la puntigliosità. Cerca una sponda nel club. Vuole che la squadra abbia un’idea. Si rivede in Sacchi, secondo me, perché certi argomenti sono diventati temi pubblici solo con Sacchi. E lo sono diventati in un periodo in cui il calcio italiano era sotto gli occhi del mondo per il titolo del 1982 in Spagna e per l’ondata di straordinari stranieri giunti (Platini, Zico, Maradona, Rummenigge). Si guardava all’Italia come oggi guardiamo all’Inghilterra, o alla Germania. E se penso al turnover, alla familiarità che Benitez possiede e che Arrigo non aveva (fece un macello agli Europei 1996 cambiando mezza squadra dopo una partita), allora mi dico che Rafa è meno sacchiano di quanto lui creda. Deve solo convincersene. Gli starò vicino.

*** Il giudizio finale E ora posso alzarmi dal lettino. Riassumo. Il primo titolo di Sacchi è del 1988. L’ultimo titolo è del 1990. Tre anni. Un’esperienza fenomenale e breve. Come possa un uomo così essere giudicato il più grande allenatore italiano di sempre è francamente un mistero. Stesso ragionamento per il suo Milan. Che partecipa a 4 campionati e ne perde 3. Li perde, aggiungo, contro tre squadre differenti: il Napoli di Maradona, l’Inter di Trapattoni e la Sampdoria di Boskov. Troppe sconfitte, forse, perché possa essere considerata una squadra irraggiungibile. Lo stesso gruppo di calciatori, giudicato spremuto da Sacchi (che per questo andò via), riprenderà a vincere con l’arrivo di Capello in panchina. Per tutti i motivi analizzati fin qui, mi sento di concludere che Arrigo Sacchi è stato un fragoroso rumore scoppiato al centro del corpo del calcio italiano, nel momento in cui sul calcio italiano c’erano gli occhi di tutto il mondo, grazie ai meravigliosi stranieri che affollavano la serie A. In sostanza, e capirete l’esempio, Sacchi fu una botta a muro. Tutto il resto, quando sarà accettata questa definizione, sarò disposto a riconoscerglielo.
Il Ciuccio
vedi anche: Ucronia di Arrigo Sacchi: se Bigliardi avesse fermato Gullit

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