Agostinelli: «Mio figlio cominciò con la coca a Napoli. E’ morto così e non me ne sono mai fatto una ragione»

L'intervista al Corsera: "La mia Lazio era una gabbia di matti. Sparavano in aria e Martini veniva in trasferta in aereo pilotando lui"

Agostinelli

Gc Modena 29/01/2011 - campionato di calcio serie B / Sassuolo-Portogruaro / foto Giuseppe Celeste/Image Sport nella foto: Andrea Agostinelli

Andrea Agostinelli ha appena chiuso la stagione al Flamurtari, in Albania. Per qualche mese allenò anche il Napoli, nel 2003, ma ha allenato persino in in Congo: “Ero a casa, a Roma. Mi chiamano, dico Ok, proviamoci. Atterrato all’aeroporto si avvicinano tre macchinoni blu, blindati. Salgo, 40 minuti per arrivare in città. Ricordo la strada lunghissima e i camion con le persone ammassate sopra. Ci allenavamo a 50 chilometri da Kinshasa, in mezzo alla savana. Vedo i ragazzi che si cambiano in campo. Due li seleziono subito, uno ora è in Nazionale mentre l’altro gioca negli Emirati Arabi. Da quelle parti hanno un talento innato. Ricordo dli allenamenti al Tata Raphael, lo stadio di Rumble in the Jungle, Alì contro Foreman. In trasferta capitava di doversi fare tre ore di aereo per villaggi in cui per la doccia ti portavano la mastella di un tempo, riempita per l’occasione da una donna al fiume. E poi gli stregoni, i crocefissi sulle porte da calcio… ho fatto una vita privilegiata, avevo una casa grande, mangiavo in un ristorante portoghese a pranzo e a cena, avevo le guardie del corpo. Ma poi ci sono state le elezioni, è cambiato il governo e siamo tornati in Italia”.

Agostinelli racconta al Corriere della Sera la sua tragedia. Nel 2014 suo figlio Gianmarco muore a 33 anni in una camera d’albergo a Montecatini. Faceva uso di cocaina: “Quando vivi una tragedia simile, per metà muori anche tu, non ti risollevi più. È un fatto innaturale, una parte del cuore va in necrosi. Il dolore si può imparare solo a gestirlo. Il tempo non cancella niente. Tutto quello che si è letto purtroppo è vero. Ha cominciato nel 2003, mentre allenavo il Napoli. E pensare che in casa mia non era mai entrato nulla, neanche una sigaretta. Quando io e mia moglie lo scoprimmo, si giustificò: “Lo fanno tutti”. Lo abbiamo mandato in comunità, attraverso le mie conoscenze si è fatto strada nel calcio. Aveva anche esordito in C2″.

Dice di essersi colpevolizzato “anche delle cose più piccole. Più volte mi sono chiesto: “E se non lo avessi lasciato da solo quella notte?”. Pistoia è dove ho ottenuto i successi più belli, volevamo tornare a vivere lì. All’indomani avrebbe dovuto visitare un’agenzia immobiliare. Non ha capito il valore della vita. Ma non c’è un momento della giornata in cui non lo pensi. Non me ne facevo una ragione. “Perché a me?», mi domandavo. A Pistoia fatico a tornare. Ho tanti amici che mi aspetterebbero a braccia aperte. Ma è ancora dura”.

“Invidio chi oggi riesce a dare un’educazione comportamentale ai propri figli. I ragazzi hanno troppo, controllare tutto è impossibile. Ricordo mio papà Attilio, che mi portava sempre al campo. Educazione vecchio stampo ma per essere felici ci bastava poco, come una passeggiata alla fontanella vicino casa per mangiare una fetta d’anguria”.

Agostinelli ha giocato nella Lazio “armata”: “Mai vissuto un giorno tranquillo, lineare. Durante le partitelle le risse erano continue, ho visto picchiarsi anche allenatore e magazziniere. Poi però la domenica eravamo tutti uniti. Una volta partimmo in pullman per una trasferta. Noto che tre o quattro compagni seduti in fondo iniziano a caricare le armi: “Ma dove andiamo, in guerra?”, mi chiedo. Poi cominciano a sparare in aria. Guardo fuori dal finestrino e noto un piccolo aereo che ci stava sorvolando. Era Gigi Martini, che oltre a essere calciatore era anche un pilota”.

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